Quanto tempo ci vuole per un congresso?

Sono passati sei mesi dal commissariamento della Fai; altrimenti detto, il mandato del commissario è a metà strada. Gli restano sei mesi per far celebrare il congresso che ripristini la legalità statutaria sospesa (ma in realtà violata, come aveva ben spiegato un esposto alla Cisl-probiviri che ha ricevuto una risposta non degna di questo nome) dalla delibera del comitato esecutivo del 31 ottobre scorso.

Ma quanto tempo ci vuole per celebrare un congresso?

Il congresso è l’equivalente dell’assemblea di un’associazione, dove tutti i soci possono prender la parola e dire la loro. E tutti gli organismi democratici (quale il commissario non è) devono essere legittimati da questo percorso che coinvolge tutti i soci.

Naturalmente, se in una piccola associazione è possibile mettere tutti in una stanza e fare così l’assemblea, le grandi associazioni come i sindacati devono ricorrere a percorsi più lunghi ed ai meccanismi della rappresentanza.

Si comincia dalle assemblee nei luoghi di lavoro e nei territori, alle quali tutti gli iscritti possono partecipare ed in cui si eleggono i rappresentanti nei congressi provinciali o territoriali, dove saranno eletti i delegati ai congressi regionali,  che eleggeranno a loro volta i delegati al congresso nazionale. Qui si svolgerà la discussione finale, si prenderanno decisioni vincolanti e si eleggerà il consiglio generale, organo massimo di decisione fra un congresso e l’altro, che potrà procedere ad eleggere il segretario generale e la segreteria nazionale.

Evidentemente non è un percorso da fare in un giorno. Se si considera poi che, di solito, a voler fare le cose per bene, i congressi di base si aprono con la discussione su tesi per il dibattito (tesi di cui, ad oggi, non si ha notizia), che fra qualche mese è già estate, e che per l’autunno si prevedono importanti appuntamenti confederali, si capisce che siamo lontani dal poter dire che il commissario pensa di lasciare al 31 ottobre 2015.

A meno che…

A meno che, magari col prevedibile avallo della Cisl-probiviri, non si pensi ad un altro percorso, a qualche scorciatoia, ad un congresso che porti questo nome ma che non sia legittimato dal basso, dal voto che parte dai congressi dove qualunque iscritto alla Fai possa dire la sua e votare per chi vuole come delegato ai livelli successivi. Ad un percorso senza tesi di cui discutere ma solo un commissario da incoronare (o come successore a sé stesso, o come garante di un viceré lasciato nella federazione) .

Ci dispiace dover polemizzare sul punto con il segretario generale dimissionario, ma questo non sarebbe altro che riproporre il “metodo Cianfoni“, quello che ha portato la Fai ad un congresso che avrebbe dovuto solo ratificare all’unanimità decisioni già prese al vertice, cioè uno scioglimento di cui gli iscritti alla Fai non avevano avuto alcun modo di discutere, né nel 2013 (quando non si è discusso, né tanto meno deciso, lo scioglimento ma solo la prospettiva dell’accorpamento con la Filca in almeno due anni), né nel 2014 (quando è stata riconvocata un’assemblea congressuale senza coinvolgere gli iscritti nei luoghi di lavoro).

Gli indizi che fanno ripensare alla riproposizione di quel metodo infelice (in sé e per il risultato) ci sono tutti; a cominciare dal fatto che il commissario sta sostituendo la democrazia interna con una consulta formata da nessuno, cioè dai segretari regionali. I quali sono molto importanti ciascuno nella propria regione (tranne un paio, che sono in realtà solo dei vice-reggenti, un modo per non applicare le regole sui mandati), ma al di là dei loro confini non hanno titolo a parlare per i duecentomila iscritti alla Fai. Né come singoli, né ancor meno come collegio privo di qualsiasi legittimazione che non sia la volontà del commissario.

Il coinvolgimento dei regionali era stato parte integrante del “metodo Cianfoni“. Ma almeno all’epoca tutto doveva poi passare da organismi democraticamente legittimati; gli accordi che il segretario generale prendeva (individualmente e talora collettivamente, ora privatamente ora pubblicamente) con i segretari regionali (e qualche territoriale) erano propedeutici a decisioni che dovevano essere ratificate e tradotte in atti vincolanti approvati (non sempre nel testo definitivo…) dagli organismi. Per questo era ancora possibile che qualcuno si alzasse comunque a dire la sua, o che all’ultimo momento un gruppo di regioni (capitanate, un po’ a sorpresa, dalla Sicilia) facesse slittare l’apertura del congresso all’Ergife riproponendo questioni preliminari allo scioglimento. O che alla fine, quando il dissenso della Sicilia e di altri era rientrato, qualcuno si alzasse a chiedere il voto segreto sullo scioglimento per garantire la regolarità della votazione (pagando questa richiesta di regolarità con l’epurazione senza preavviso ad opera del commissario).

Ora c’è lo stesso metodo, ma senza alcun luogo di discussione democratica.

Potranno essere migliori i risultati?

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