Un nuovo modello contrattuale, le regole sulla rappresentanza, detassare gli accordi di produttività. Sono le cose di cui si parla fra i sindacati e con la Confindustria propio in queste ore. Eppure si tratta di cose già sentite.
Si potrebbe anzi dire che un’intera generazione di sindacalisti, quella entrata in servizio all’inizio degli anni ’90, non ha sentito parlare d’altro che di riforma della contrattazione, di regole sulla rappresentanza, di detassare gli accordi di produttività al secondo livello e di argomenti connessi, interrotti ogni tanto dal grido “l’articolo 18 non si tocca!” (ma quella è ormai roba vecchia) e dalla sollecitazione a trovare un accordo, “altrimenti interviene la legge”.
Eppure di accordi su questi temi ne sono stati fatti e rifatti. E sono state fatte anche varie leggi (a volte nel solco degli accordi, a volte no). Ma sembra che i protagonisti delle relazioni industriali in Italia (e la cosa comprende anche chi le racconta, giornalisti e studiosi), girino attorno allo stesso palo da almeno cinque lustri a questa parte. O non è successo mai niente, o non esistono le parole per spiegare cosa è cambiato.
Viene quasi il dubbio che le relazioni industriali italiane siano diventate una commedia che va periodicamente in scena, con qualche battuta aggiornata, qualche attor giovane che entra ogni tanto e qualcun altro forse un po’ invecchiato per la parte.
Questo almeno ai rami alti. Nelle imprese, nei territori e nelle categorie, invece, succedono tante cose che non vengono raccontate, se non quando servono strumentalmente a confermare questa o quella tesi. Ma, per esempio, nell’agricoltura il “nuovo modello contrattuale” è stato fatto già nel 1995, solo due anni dopo il protocollo del 1993. Perché sono le dinamiche naturali di ogni sistema di relazioni industriali (l’ineliminabilità del conflitto, il contratto collettivo come strumento per la sua soluzione dinamica) e non le intese di vertice a produrre molteplici esperienze di relazioni fra le parti che solo un pregiudizio centralista impedisce di riconoscere.
E se fosse questo il problema? Se il vero freno all’inovazione fosse la pretesa di regolare tutto dal centro? Magari con la scusa che “altrimenti il governo fa la legge” (che tanto, quando ne ha la forza, poi la fa lo stesso)?
Con questa premessa, solo in tema di rappresentanza e contrattazione negli ultimi quattro anni abbiamo avuto vari accordi (nel 2011, nel 2012, nel 2014 … l’ultimo fu battezzato “storico” non appena firmato; un po’ come quando i genitori dicono di un neonato “sarà un grande calciatore” o “sarà presidente della Repubblica”) che lì per lì sembrano aver risolto tutto, salvo poi ricominciare a discutere come se non fosse stato risolto nulla. Perché troppo spesso, a livello centrale, le dinamiche sindacali si intrecciano a quelle politiche, e tutto si complica.
Nel 1969, dopo aver vinto le elezioni in Germania, Willy Brandt lanciò lo slogan “osare più democrazia“. E se fosse il momento di “osare più autogoverno” per le relazioni industriali italiane?
Certo, si dirà “ma Renzi…”, “ma Marchionne…”. Senza ripetere quel che abbiamo detto dell’uno e poi dell’altro, ci permettiamo di osservare che se l’autogoverno dovesse aspettare il via libera di chi sta in alto, il suo momento non arriverebbe mai. Mentre se ne sente sempre più il bisogno.
Soprattutto all’interno della Cisl.