Il tema dei salari da alzare non è quello preferito dalla dottoressa Fumarola. Perché anche lei si è formata ed è cresciuta in anni in cui (come disse un delegato della Toscana all’assemblea organizzativa della Fisba a Montesilvano nel 1990 per criticare la linea confederale) “anche noi ci siamo convinti che il problema in Italia è che i lavoratori guadagnano troppo”.
Se avessimo dato più retta a quel delegato, forse un po’ grezzo ma concreto, invece che ai discorsi raffinati di Via Po 21. se cioè avessimo accettato la moderazione salariale solo come una medicina amara da prendere fino ad essere guariti dalla malattia dell’inflazione e non come una dieta da seguire per tutta la vita, oggi non saremmo nella situazione descritta dall’Ocse: in Italia, e solo in Italia, il potere d’acquisto dei salari è più basso di trent’anni fa, mentre in Francia e Germania è cresciuto alla ragionevole e sostenibile media di un punto percentuale all’anno (come frutto dell’alternanza fisiologica fra periodi di maggior espansione ed altri di contenimento).
Ma Via Po 21 ha preferito cedere alle lusinghe, accettando il ruolo di contenimento delle spinte salariali in cambio dell’accreditamento come “interlocutore affidabile” della politica e dei governi pro tempore invece del ruolo di cura delle esigenze di una parte, quella del lavoro, da tutelare con responsabilità verso tutti ma senza trascurare la primaria responsabilità verso i rappresentati.
Certo, la dottoressa Daniela non è fortunata da questo punto di vista, perché la signora Anna Maria (oggi nonna in pensione con un appannaggio dal Senato) e il dottor Sbarra dell’Anas (oggi presidente di una fondazione fantasma ma con appannaggio reale) se la potevano cavare con le solite tiritere: la Cisl è per la produttività, per la responsabilità, per tante cose con l’accento sulla “a” o che fanno rima in “ione” (la concertazione, la partecipazione…) e così avanti cantilenando.
Ma di fronte al dato dell’Ocse scrivere versi in rima non serve a nulla: oggi c’è da scrivere in prosa e senza troppi svolazzi un programma di aumento salariale che sia esso stesso di incentivo alla produttività (perché fermando le retribuzioni abbiamo fermato, come spiegano gli economisti, l’incentivo a organizzare in maniera più redditizia il fattore lavoro, che finché costa poco lo si cura poco). Un programma che vada ben al di là dei rinnovi dei contratti alle regole attuali. Perché i contratti, bene o male, sono stati rinnovati anche in questi anni, ma se il risultato è la perdita del potere d’acquisto (rispetto al 30% di aumento nei paesi concorrenti) allora vuol dire che aveva ragione il delegato toscano della Fisba: l’errore nasce nella nostra testa, ed è un errore nell’azione di rappresentanza.
Ora c’è bisogno di terapie d’urto, e non ha senso proporre formule omeopatiche del tipo “dobbiamo aumentare la produttività” (come? Con un costo del lavoro che disincentiva a farlo?) o “dobbiamo rinnovare i contratti” (con quali parametri? Con l’ipca che rende inefficace l’adeguamento al costo della vita?). Ora, dicendolo in termini fin troppo politici ma chiari, bisogna dire se si condivide quel che ha detto Sergio Mattarella (i salari sono bassi) o quel che ha detto Giorgia Meloni (i salari in Italia vanno bene, e comunque meglio che altrove).
Per ora, la dottoressa Fumarola sta sulla linea Meloni. Proprio come il suo (infausto) predecessore.
Ex Fai per il9marzo.it
Daniela Fumarola, segretaria della Cisl ha dichiarato “Non andrò a votare. Ritengo che lo strumento dei referendum non sia adeguato a risolvere i problemi sul lavoro”.
Può sempre votare contro i quesiti, si potrebbe dirle, per ottenere lo stesso effetto. E terminare qui!
Ma secondo me occorre riflettere su quest’affermazione della d.ssa Fumarola ricordandole cosa implica il diritto di votare, ovvero il diritto di “contare” come persona e come cittadina!!!!
L’art. 48, 1 co. Cost afferma “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età (1 comma)….. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge (3 comma).
Il 2 giugno 1946 le donne italiane si recano alle urne e finalmente votarono per la prima volta!
Il voto è un “dovere civico” (comma 2 art. 48 della Costituzione italiana) e nel corso del tempo, il legislatore ha tentato di sostanziare questo “dovere civico” con qualche pena, perlomeno simbolica. Con il Dpr 361/1957 (“Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati”), infatti, il legislatore innanzitutto ribadiva che “L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il paese” (art. 4 comma 1). Non solo: il successivo articolo 115 prevedeva, per l’elettore che non avesse partecipato alle elezioni, l’obbligo di giustificare la propria astensione al sindaco. In base alle motivazioni addotte, il sindaco avrebbe poi valutato se inserire il nome dell’astenuto in un elenco che sarebbe rimasto esposto per trenta giorni all’albo comunale. L’onta non si esauriva qui. L’ultimo comma dell’articolo 115 prevedeva inoltre che “Per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” è iscritta nei certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si è astenuto dal voto senza giustificato motivo”: un periodo forse non casualmente identico a quello di una legislatura (o almeno di una legislatura non interrotta anticipatamente). La previsione è stata cancellata solo trentasei anni dopo, con il Dlgs 534/1993. L’art. 4, invece, è stato modificato due volte: la prima, nel 1993, eliminando il riferimento all’obbligo ed enfatizzando invece il fatto che il voto è un diritto. La seconda, che ha determinato il testo vigente, sancisce un parziale ritorno al passato, per il comma 1 che ora recita così: “Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica”.
Questa volta si tratta di un referendum e non di elezioni politiche ma credo che il non voto è offesa alle tante donne che si sono battute per ottenere il diritto di voto anche per le donne.
Ma non votare vuol dire, soprattutto, disprezzare quelle leggi che invochiamo quando riceviamo un torto.
Retaggio del passato, si dirà, ma i tormentati tempi attuali lanciano un segnale e se venissimo privati del diritto di voto?