Questo blog sostiene fin dal suo sorgere, ormai dieci anni fa, che esiste una correlazione fra la questione democratica nel sindacato e la questione salariale, e che non per caso la fine di quello che in gergo si chiamava l’autogoverno delle categorie (ossia la libertà di azione e organizzazione delle federazioni cioè delle strutture cui aderisce la persona che lavora per esserne rappresentata contrattualmente) coincide con una drammatica perdita di efficacia della contrattazione salariale.
Qualcosa del genere, se non abbiamo capito male, viene sostenuto in una recente pubblicazione a quattro mani del giornalista Roberto Mania e del ricercatore dell’Ocse Andrea Garnero (La questione salariale, Egea, 2025). Anche se nel loro caso, il punto di partenza non è l’analisi giuridica dell’organizzazione sindacale (come invece accadeva nel bel libro di Chiara Cristofolini che chi segue questo blog conosce; una lettura che consigliamo a Garnero e Mania se dovessero leggere questo post) bensì l’analisi economica da cui risulta che negli ultimi trent’anni i redditi da lavoro dipendente in Italia, e solo in Italia, sono andati indietro in termini reali.

Ad un certo punto, il discorso cade necessariamente sulle organizzazioni sindacali; e qui Mania osserva (pp. 39-41) che oggi Cgil, Cisl e Uil sono tre corpi in ciascuno dei quali convivono tre anime diverse.
Le organizzazioni confederali centrali svolgono un ruolo politico, e si muovono con iniziative su quel terreno di segno magari opposto ma della stessa natura (come i referendum della Cgil o l’iniziativa di legge popolare della Cisl) avendo come interlocutori i partiti politici e il governo. “È un’azione – osserva Mania, e noi sottoscriviamo – che probabilmente non aiuta molto l’attività più strettamente sindacale“. Cioè quella che resta affidata alle federazioni di categoria che firmano i contratti e sono il secondo sindacato, “espressione della sua tradizione e delle ragioni per cui le persone vi aderiscono“. Per ultimo viene il sindacato dei servizi, cioè quello “dei patronati e dei centri di assistenza fiscale, la cui azione è una fonte importante di entrate economiche” (e noi aggiungiamo gli enti bilaterali).
Insomma, se possiamo sintetizzare, le federazioni si trovano schiacciate fra la preponderanza delle confederazioni che ricevono legittimazione del loro ruolo dalla politica e dall’altra parte dai servizi che alimentano (spesso su delega delle istituzioni, cioè della politica) importanti flussi di denaro.
Il risultato, e qui citiamo Garnero (p. 42), è che “le categorie … non hanno avuto la forza di opporsi al cambiamento in atto“. E anche il conflitto sindacale, cioè l’arma fisiologica in una società pluralista, è stato dirottato su altri temi visto che in questi anni “sono stati convocati scioperi generali per le più svariate ragioni, ma mai frontalmente – rileva Garnero – per la questione salariale“.
Il risultato è che (dati Ocse) i redditi da lavoro annuali (si badi bene: quel che entra effettivamente e determina il bilancio familiare, non il livello della paga oraria) in Italia sono scesi del 3,4 per cento in termini reali, mentre anche in Spagna sono saliti (del 9,15) per non parlare di paesi manifatturieri meglio paragonabili a noi come Germania (più 30,4) e Francia (più 30,9).
Se Mania e Garnero hanno ragione, allora la questione dell’unità sindacale o meno va relativizzata: perché anche se avessimo un’unica organizzazione (o le tre agissero unitariamente) resterebbe il problema che chi fa i contratti deve trascinarsi il peso una palla di pietra incatenata a ciascun piede: il peso di un livello confederale che ragiona in termini politici e schiaccia le esigenze della rappresentanza economica, e il peso della dipendenza da servizi usati per fare iscritti che sono numeri e non persone ma forniscono soldi con cui mantenere il consenso della burocrazia sindacale che esprime la dirigenza centrale.
La Cisl di oggi ha fatto le sue scelte una decina di anni fa, quando ha commissariato la Fai negandole il diritto di decidere di sé nel suo congresso (e cancellando così l’autogoverno di tutte le categorie) e quando ha espulso Fausto Scandola, che aveva capito come gli stipendi fuori regolamento della segreteria confederale erano il sintomo di un sistema in cui la rappresentanza sindacale associativa era stata soppiantata dalle dinamiche di una casta autoreferenziale.
Ecco perché Via Po 21 non parla di questione salariale; perché intuisce che aprire quel capitolo potrebbe far cadere tutto il castello. Ed ecco perché sentiamo il dovere di parlarne almeno noi: perché la rappresentanza sindacale è più importante della conservazione del castello di Via Po 21 come degli altri.
il9marzo.it
https://www.messaggeroveneto.it/regione/elezioni-rsu-sindacati-asugi-risultati-mbori7an
E’ morto Papa Francesco e, come tanti avvoltoi, si scatenerà la pessima abitudine di intestarsi l’essere stati suoi seguaci e realizzatori del suo insegnamento. Ricordo solamente quanto detto da Papa Francesco il 24 maggio 2018 “Anche qui, in Italia, per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro. Va contro il secondo comandamento e chi fa questo: ‘Guai a voi!’.
Sit tibi terra levis Papa Francesco: riposa in pace. Grazie per il tuo insegnamento
ricordiamo i due interventi che il Papa fece alle udienze con la cisl: uno parlò di corruzione dei movimenti e nelle associazioni. Nell’altro di pensioni d’oro.
ai congressi della cisl messe da per tutto…..quanta ipocrisia…..
Avere un impiego non è più una condizione sufficiente per vivere in maniera dignitosa. Lo dicono i numeri, che fotografano una preoccupante crescita del lavoro povero. ll primato negativo dell’Italia con «salari reali inferiori a quelli del 2008» e particolarmente risicati quando si parla di immigrati.
Dov’è la rivoluzione copernicana nel mondo del lavoro reclamata dal Governo? E i sindacati…. stanno a guardare!!!! Bel Paese…Evviva il primo maggio…. evviva il concertone che le quote dei poveri cristi hanno pagato