Ancor prima del modello contrattuale

Questo intervento è una risposta al commento di un lettore che, dopo aver letto alcune considerazioni critiche sul rinnovo del contratto per gli alimentaristi, chiedeva se allora si ritenesse necessario spostare tutta la parte economica del contratto dal livello nazionale a quello aziendale.

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Il lettore che s’interroga, forse perplesso, sull’opportunità o meno di spostare la parte economica del contratto nazionale degli alimentaristi, appena rinnovato, sulla contrattazione di livello aziendale, ci invita a svolgere qualche approfondimento, non certo in chiave polemica, anzi, il lettore merita tutto il nostro ringraziamento per aver posto un interrogativo breve e semplice e per questo motivo molto efficace su una questione da sempre  dibattuta negli ambienti sindacali.

Cerchiamo di procedere con ordine e con la massima chiarezza possibile su una materia di per sé molto ampia con continui richiami a fattori esterni ma ad essa collegati.

1) Ancor prima di chiedersi se sia più opportuno declinare il livello contrattuale nazionale a favore di quello decentrato, sia esso territoriale e/o aziendale, bisogna riflettere sui costi per le imprese e sui conseguenti benefici per i lavoratori, in una parola, sul costo del lavoro e sulla questione dei bassi salari nel nostro paese. Per capirci meglio, prendiamo a riferimento il caso concreto del contratto nazionale degli alimentaristi: ha senso imputare costi annui a regime pari a circa euro 2000,00 per unità lavorativa, quando la stessa unità lavorativa, euro più euro meno, potrà contare su un beneficio di circa 750,00 euro, ovvero nemmeno una quota pari al 40% di quanto speso dall’azienda per lei? Contributi previdenziali e tassazione fiscale si portano via più del 60% di quanto negoziato dalle parti contraenti! Possibile che non si possa intervenire, seppur gradualmente, su questa clamorosa stortura?

2) Proviamo quindi a ragionare sui possibili rimedi e sulle loro inevitabili conseguenze. Sul fronte dei contributi previdenziali, si potrebbe pensare ad un alleggerimento dell’attuale carico sia per le imprese che per i lavoratori, ciò implicherebbe sì una rendita pensionistica futura più bassa, ma appunto consentirebbe una maggiore disponibilità monetaria attuale per i lavoratori e un minor costo del lavoro delle imprese.

Peraltro la maggior ricchezza in mano ai lavoratori non è detto che su libera scelta degli stessi non possa essere diretta alla costruzione di una pensione integrativa, magari incentivata attraverso una tassazione di favore, colmando quindi l’eventuale gap sopra evidenziato. In fondo si prospetterebbe uno scenario che riprende sull’argomento un’idea madre della Cisl, ovvero uno stato che assicuri una condizione minima di pensione per la generalità dei propri cittadini, creando nel contempo le condizioni affinché ciascuno possa decidere di costruirsi per il suo domani una rendita integrativa privata.

In questo contesto però c’è da risolvere un problema di non poco conto, dovuto alla scelleratezza con cui si è gestito in passato il sistema pensionistico, come una cicala abbiamo prosciugato risorse per il domani, tant’è che i contributi di oggi servono a pagare le attuali pensioni e non sono nemmeno sufficienti, ma se non vogliamo creare ulteriori diseguaglianze generazionali sul tema, è giusto e doveroso intervenire ora a costo di qualche sacrificio per alcune tipologie di attuali pensionati, con buona pace dei “diritti acquisiti”.

3) Sempre in tema di contributi, sappiamo che ogni forma assicurativa che si rispetti misura l’entità del premio da versare alla probabilità del verificarsi dell’evento legato al premio versato. Ci sono imposizioni obbligatorie gestite da un ente assicuratore pubblico in forma monopolistica che non rispondono al criterio sopra richiamato, in alcuni casi in modo oseremmo dire scandaloso. Prendiamo ad esempio i premi versati all’Inail per la copertura degli infortuni degli operai agricoli, la percentuale sulla retribuzione lorda supera il 13% e accade cosi che in una data provincia è stato calcolato che in un anno i premi versati all’Inail dalle aziende agricole ammontano a più di 6 milioni di euro a fronte di prestazioni erogate a tale titolo inferiori a 300mila euro! Che l’assicurazione sia obbligatoria, senz’altro. Che debba essere esercitata in forma monopolistica da un ente pubblico, perché? Per creare le mostruosità assicurative appena descritte che incidono pesantemente sul costo del lavoro?

4) Occupiamoci ora del supposto “modello contrattuale”. Non è infatti propriamente corretto  parlare di modello in quanto è la realtà stessa che impone soluzioni negoziali che di volta in volta possono essere aggiustate o anche totalmente modificate. Se ad esempio la realtà delle industrie alimentari del nostro paese fosse omogenea per struttura e redditività di imprese, la scelta del contratto nazionale come fonte principale di negoziazione non si porrebbe, anzi sarebbe da auspicare. Ma siccome cosi non è, bisogna rendersi conto che la produttività va negoziata dove viene prodotta e quindi a livello aziendale laddove le dimensioni dell’azienda e il numero degli addetti la rende  praticabile o a livello territoriale settoriale in presenza di unità produttive di piccole dimensioni. Una contrattazione decentrata  deve essere accompagnata da incentivazioni contributive e fiscali ancor maggiori di quelle attualmente previste al fine di attenuare le distonie sul costo del lavoro e sul salario evidenziate nei precedenti punti.

Il contratto nazionale  dovrebbe assicurare delle condizioni minime, sotto le quali non sia possibile scendere, fatti salvi casi estremi, sia riguardo al quadro normativo contrattuale che economico. Semmai potrebbe avere un ruolo “politico” di condizionamento positivo del livello legislativo. Se cosi fosse il contratto nazionale dovrebbe intervenire in seconda battuta, dopo la negoziazione decentrata, tant’è che in specifiche e determinate situazioni laddove questo non accadesse, riterremmo giusto l’intervento legislativo finalizzato ad assicurare un salario minimo.

Ci auguriamo di essere riusciti a chiarire la nostra posizione, determinata, non tanto da una visione teorica di modello contrattuale, quanto dalla mediazione di istanze pratiche verificate dall’esperienza sindacale.

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