Una vittoria, o un’occasione sprecata?

Con questo contributo teniamo aperto il dibattito, per chi fosse interessato, sull’ultimo rinnovo del contratto per l’industria alimentare. Facendo un po’ di conti e leggendo meglio quello che è stato effettivamente firmato, per andare al di là degli slogan e delle strategie di comunicazione. E per capire, sul piano economico e sul piano della politica sindacale, se si tratta di un accordo che apre la strada alla nuova stagione delle relazioni sindacali (ma sono anni che si parla di “svolte”, di “nuova stagione”, di “accordi storici” che alla fine lasciano le cose più o meno come stavano) o se invece non si tratti di un’occasione che, a voler essere generosi, poteva essere sfruttata meglio sia nell’interesse delle imprese, sia nell’interesse dei sindacati, sia nell’interesse dei lavoratori.

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In casa FAI si canta vittoria, la difficile trattativa per il rinnovo del contratto per gli addetti dell’industria alimentare si è conclusa, a detta di tutti i contraenti, con considerazioni diverse, con un successo. Lungi dal voler essere gli interpreti ad uso gratuito di un “controcanto” fine a se stesso, ci sembra doveroso offrire alcune libere riflessioni che mettono in luce elementi che quanto meno inducono prudenza di giudizio.

Una prima considerazione riguarda il contesto in cui il negoziato si è svolto. Il contratto appena rinnovato interessa circa quattrocentomila alimentaristi sparsi nelle varie industrie alimentari presenti nel nostro paese. Al netto dei dipendenti da imprese alimentari artigiane (a proposito: chi si ricorda di questi lavoratori? Della fatica che si fa a rinnovare un contratto…? Siamo proprio sicuri che in casi come questi, il salario minimo stabilito per via legislativa sia “una cosa cattiva e dannosa” come ci dicono in questi giorni i sindacati confederali?) e degli addetti alle piccole e medie imprese alimentari per le quali di solito si rinnova un “contratto quasi fotocopia” rispetto a quello dell’industria alimentare, utile solo a dare ruolo istituzionale a Confapi, FAI, FLAI E UILA, dove la rappresentanza reale di imprese e lavoratori  è sostituita da “una rappresentatività istituzionale”? Ci si può chiedere allora che senso ha il corpo intermedio e se non sia più corretto anche in questo caso perseguire la via legislativa.

Dicevamo, al netto dei due elementi sopracitati, siamo sicuri che i 400.000 destinatari del nuovo contratto alimentare lavorano in aziende omogenee per struttura e redditività? La risposta è semplice e negativa. Così accade che all’interno di Federalimentare, federazione composta da più comparti produttivi e dove a volte regna il caos, nascano due fazioni opposte: quella che ha come riferimento le grosse industrie alimentari ubicate per la maggior parte al nord e che trovano riferimento in Assolombarda; e l’altra più rappresentativa di aziende di minori dimensioni con capacità produttive inferiori e disseminate su tutto il territorio nazionale.

Accade anche che la prima componente sia favorevole ad una chiusura in tempi rapidi del negoziato principalmente per il fatto che un contratto nazionale forte dà comunque minor agibilità ad una contrattazione aziendale, vantaggio non da poco per le grandi aziende che possono giustificare in questo modo una “necessità di ristrutturazione” che può interessare oggi un sito produttivo, domani un altro.

Non è da considerare, d‘altro canto, secondaria neppure una certa forma di “pressione di fabbrica” a cui viene sottoposta un’azienda di grosse dimensioni attraverso minacce di blocchi degli straordinari e flessibilità, magari proprio per il sabato seguente a trattativa in corso: non esattamente un esempio di maturità negoziale. Per inciso chi scrive non è affatto contrario a priori ad azioni di lotta di questa natura, ma sicuramente se utilizzate come estrema ratio, non come forme di ricatto.

La seconda componente, pur animata da buona volontà, paga a volte il prezzo di qualche ingenuità o inesperienza come nel caso in cui si concentrano eccessive energie nella richiesta di cancellazione degli scatti di anzianità, istituto contrattuale la cui abolizione non comporta conseguenze così devastanti (stiamo parlando di un massimo di 5 scatti di anzianità biennali con importi fissati e non rivalutabili); ci si chiede quindi se il problema sia di natura prettamente economica o piuttosto di natura ideologica.

In questo contesto è stato quindi siglato un contratto nazionale la cui durata è passata da 3 a 4 anni, con una contrattazione aziendale perciò posticipata di un anno e con aumenti salariali medi diluiti nei quattro anni di validità del contratto: dal 2016 al 2019 euro 105 mensili lordi a regime.

Chi ne ha tratto maggior vantaggio? O sarebbe meglio chiedersi: chi ne ha ricavato minor danno? Nel concreto: le componenti datoriali hanno ”perso” meno perché l’allungamento dei tempi del contratto nazionale e quindi di quello aziendale rappresentano un sicuro contenimento dei costi.

La FLAI e la UILA salvano la faccia vedendo: la prima confermata la centralità della contrattazione nazionale e il suo peso nelle grosse aziende in base ad un equilibrio ormai consolidato per cui il “sindacato che conta” assicura la pax aziendale in cambio di un protagonismo indiscusso di fabbrica, la seconda si riscopre “ago della bilancia” con un’autorevolezza negoziale rinnovata rispetto alla controparte .

Chi, a nostro giudizio, ne esce meno bene è la FAI, che si dimostra fuori dal gioco nell’asse negoziale costituitosi fra Assolombarda, FLAI e UILA, vedendo le proprie prerogative di fondo, nel concreto, ridimensionate (ad esempio il mancato rilancio della contrattazione di secondo livello) . Non sembra avere solide basi di sviluppo neppure il welfare bilaterale ottenuto sotto la gestione della precedente segreteria nazionale e considerato una novità assoluta nel settore (ai posteri l’ardua sentenza).

L’evidenza dei calcoli dimostra con certezza che i veri perdenti in quest’ultima tornata contrattuale sono le imprese e i lavoratori: le prime perché di fatto, seppur diluito in quattro anni, subiscono un costo significativo senza poter negoziare elementi di produttività (105 euro al mese comportano un costo del lavoro di 2000 euro circa su base annua per unità lavorativa a tempo pieno); i secondi vedono entrare nelle loro tasche poco più di 200 euro netti per anno e quindi, a regime dal 2020, poco più di 800 euro annui netti. Quest’ultimo calcolo rimane incerto in quanto dopo l’introduzione del famoso bonus mensile di 80 euro netti (euro 960 per anno contro euro 800 in 4 anni del nuovo contratto) è stato fissato il limite di reddito per averne diritto a euro 24000 annui con una proporzione decrescente del bonus fino a euro 26000. Nel caso in cui gli aumenti previsti dal contratto nazionale portano i lavoratori a raggiungere e/o a stazionare il loro reddito nei limiti fra i 24000 e i 26000 euro annui (caso molto frequente per i lavoratori con salari medio bassi) i 200 euro verranno si percepiti ma verrà loro tolto o ridimensionato il bonus Renzi.

Le notizie non sono migliori per chi aveva già redditi superiori a quelli indicati: infatti chi supera la soglia dei 28000 euro annui otterrà aumenti del contratto nazionale di fatto dimezzati (INPS 9,19% , aliquota marginale IRPEF al 38%, addizionale comunale e regionale) .

L’aspetto più paradossale è che la contrattazione aziendale sfruttando detassazione e decontribuzione avrebbe portato sicuramente a tre vantaggi:

1 ai lavoratori un aumento più consistente,

2 alle aziende un minor costo del lavoro a vantaggio di produttività e competitività,

3 i sindacati avrebbero svolto con maggior efficacia il loro ruolo di tutela salariale e stabilità occupazionale (un costo del lavoro maggiore spesso sfocia in ristrutturazioni ed esuberi).

La questione rimane: vittoria o occasione perduta?

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4 Commenti - Scrivi un commento

  1. Giovanni Graziani · Edit

    Non rispondo a nome dell’autore dell’analisi, peraltro molto apprezzabile, sul rinnovo di questo contratto. Faccio però presente (soprattutto a quanti una volta mi chiamavano “professore” e mi battevano le mani quando mi invitavano a parlare nei loro territori) che c’era una volta la scala mobile, che garantiva aumenti delle retribuzioni (comunque in termini nominali, a volte in termini reali). Poi la scala mobile fu tolta, in cambio della promessa di avere un rinnovo salariale ogni due anni (sia pure entro i limiti dell’inflazione programmata), più gli aumenti di secondo livello legati alla produttività.

    Attraverso una serie di passaggi, ma sempre su indicazione confederale unitaria, questa dinamica è stata progressivamente rallentata. Fino ad arrivare oggi ad avere un rinnovo per quattro anni che si mangia lo spazio della contrattazione territoriale o aziendale, comunque bloccata per un anno. E che, se e quando si farà, rischia di essere in deroga o peggiorativa, perché in quattro anni ci sarà certamente un momento di difficoltà da superare, e in questi casi il tavolo è sempre aperto.

    Al netto di considerazioni su questo rinnovo, che non ho elementi e competenza specifica per giudicare, continuo a pensare quello che dicevo prima del 31 ottobre 2014, e cioè che qualcosa non va in una dinamica contrattuale (nelle mani delle confederazioni) che rallenta i contratti nazionali e contemporaneamente frena la contrattazione aziendale (salvo quella “concessiva”). E ricordo che la linea della Fai, con alterni successi e non senza diversità di opinioni su questo o quel punto, era sempre stata quella di spostare il baricentro del sistema verso le aziende (o il territorio, parola che sembra impronunciabile con queste controparti; ma le piccole imprese?).

    Prendo atto che questa linea è stata cambiata senza che nessuno degli organismi democraticamente legittimati previsti dallo statuto (congresso, consiglio generale, esecutivo o segreteria) lo abbia deciso, o anche solo discusso.

    D’altra parte, tutti i gusti sono gusti…

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    1. Infatti non era una risposta a nome del sito; sia perché il contributo era firmato con nome e cognome dall’autore, che interveniva a titolo personale e senza essere stato sollecitato, sia perché il contributo cominciava con le parole “Non rispondo …”.

      Se poi qualcuno non l’avesse capito, ricordiamo che la Fai, nelle sue prese di posizione, è sempre stata, fino al commissariamento, favorevole ad alleggerire il livello nazionale a favore del secondo. Quindi non spostare “tutto”, ma almeno qualcosa sì.

      Altrimenti detto, non siamo noi ad aver cambiato idea, quindi non siamo noi a dover spiegare il perché.

      Grazie comunque dell’interesse e della partecipazione al dibattito, che comunque la si pensi è la cosa più preziosa. Soprattutto di questi tempi.

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