I Graziani sono per il salario minimo

Il dottor Sbarra dell’Anas è andato al convegno dei Popolari a ripetere la sua tiritera sulla partecipazione come risposta miracolosa a tutti i problemi del lavoro, a gonfiare i dati parlando di “quattrocentomila firme” per la sua proposta di legge (per la precisione sono 375.266, sempre che siano tutte valide), e ad opporsi alla legge sul salario minimo. Perché evidentemente, secondo lui, i tre milioni di persone che ne beneficerebbero da subito saranno più contente di mangiare invece pane e partecipazione (quando non solo partecipazione), se e quando la sua legge sarà approvata. Peraltro con i voti della maggioranza di destra alla quale lui si liscia da tempo.

Il giorno dopo, 2 dicembre, nel convegno dei Popolari si è passati dalle chiacchiere (anche se non ci sono state quelle vuote, alcuni interventi sono stati alti e utili) ai fatti. Ad esempio, nella tavola rotonda con gli amministratori locali, quelli che con le chiacchiere non vanno lontano. Ed uno degli interventi, quello di Anna Graziani, assessore al sociale del comune di Camaiore, ha toccato il tema del salario minimo. In termini esattamente opposti a quelli del dottor Sbarra dell’Anas.

E siccome Anna Graziani viene da una famiglia ricca di tradizione quanto a impegno dei cattolici in politica e nel sindacato, ha potuto ricordare che una delle prime proposte di salario minimo per legge, se non la prima in assoluto, fu avanzata da Mario Grandi sulla rivista dell’Ufficio studi della Cisl (quello di Mario Romani). E questo vuol dire, aggiungiamo noi, che Via Po 21 è libera di essere arrivata oggi a conclusioni diverse, ma non è libera di raccontare che la posizione negazionista del dottor Sbarra dell’Anas è coerente con il pensiero e l’azione della Cisl in tema di autonomia della contrattazione.

Perché, come ha insegnato Grandi, la contrattazione ha come compito quello di stabilire in autonomia dalla politica il salario che risponda alla quantità/qualità del lavoro svolto, ma questo non tocca l’impegno morale e giuridico (indicato dalla Rerum Novarum e poi sancito nella Costituzione) a garantire a chi lavora il minimo indispensabile per un’esistenza libera e dignitosa.

E questo è un compito della politica, in autonomia dalle parti sociali.

Condividi il Post

4 Commenti - Scrivi un commento

  1. il numero esatto delle firme dichiarato dalla Cisl è di 375.266, e non 372.266 come avevamo inizialmente scritto. Dopo aver corretto il dato ci scusiamo per l’errore con i lettori e con l’organizzazione promotrice dell’iniziativa.

    Reply
  2. “Il lavoro non è una merce”.
    E’ la formula contenuta nella dichiarazione di Filadelfia del 1944 sugli scopi e gli obiettivi dell’OIL.
    Ma è anche il titolo di un saggio di M. Grandi (1997) che ha per oggetto la riflessione condotta sul principio fondativo del diritto del lavoro espresso nella formula secondo cui il lavoro non è una merce. Una formula sempre da rimeditare, nella storicità del diritto del lavoro e rispetto a visioni mercantilistiche ciclicamente riproposte, e che, tuttavia, non è stata oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina non solo italiana. Quello di Mario Grandi rappresenta ancora oggi, nel pur vasto panorama della letteratura giuslavoristica, uno dei pochi contributi giuridici espressamente dedicati a questa formula vuoi nella sua dimensione storico-evolutiva vuoi anche nei termini di sua attualizzazione e rimeditazione rispetto alle trasformazioni oggi conosciute dal lavoro e dal suo assetto regolatorio che lasciano ancora aperta la tensione tra il lavoro come oggetto di scambio sul mercato e il lavoro come percorso di crescita e sviluppo della persona.
    Poi Gallino ha ripreso il tema e, nell’introduzione al suo volume, L. Scialanca ha scritto “Pensiamo ― leggendo Il lavoro non è una merce, di Luciano Gallino ― a quanti danni, a quanta miseria, a quanta sofferenza e infelicità, a quante morti provochi nel mondo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, l’idea che ciò che è umano ― il lavoro, certo, ma non solo ― si possa considerare e trattare come una merce, come se fosse possibile separarlo dagli Esseri Umani, dalla loro storia, dalla loro vita, dal loro essere sempre qui, dinanzi a me e in rapporto con me, anche se lontani, anche se non li vedo, anche se non li conosco”.
    Ricorda, questa introduzione, una frase di Lodovico Barassi – padre del diritto del lavoro – “come non si può separare la malattia dal malato, così non può separarsi il lavoro dal lavoratore”.
    E infine anche il Presidente della Repubblica, attento e fine costituzionalista, ieri ha affermato «Oggi registriamo una frammentazione del lavoro, pur in quadro in cui gli indicatori occupazionali mostrano segni complessivamente positivi. Da un lato l’occupazione stabile, il lavoro professionale qualificato, i settori di avanguardia, l’organizzazione aziendale attenta alla qualità. Dall’altro inoccupazione, bassi salari, precarietà, caporalato, ritardo nell’ingresso dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro, squilibri di salario a parità di lavoro. Tra queste polarità resiste il lavoro più tradizionale, quello che ancora costituisce il principale pilastro delle relazioni sindacali e che tiene in vita l’impalcatura della contrattazione collettiva. Ma le trasformazioni incalzano e gli equilibri sono sempre da ridefinire per dare attuazione piena al dettato costituzionale».
    Nel dibattito sul “salario minimo per legge”, sì e no, si ha l’impressione di assistere ad una discussione nella quale la persona che lavora è solo uno spettatore, una merce appunto: tutto si gioca sulla sua pelle.
    Pare che l’art. 1 della Costituzione “fondata sul lavoro” sia assente. Eppure “queste affermazioni costituiscono lo svolgimento più coerente dell’indirizzo prevalente, nel quale i critici hanno visto manifestarsi la «concezione un po’ mitica» del lavoro «come l’espressione più completa della personalità dell’uomo” (L. Mengoni, ma prima ancora Costantino Mortati).
    Ma se il lavoratore e le sue energie, che egli profonde nel lavoro sono solo una merce, allora gli artt. 1, 3, 2 co., 4 e 36 Cost. della nostra costituzione possono ritenersi tacitamente abrogati e ne sia prova di questa abrogazione tacita, anche la circostanza che da tempo, oramai, si parla di “mercato del lavoro” lo conferma: il lavoro umano, dunque, è una merce. Eppure il principio personalista è uno dei grandi pilastri della nostra Costituzione.
    Ma tant’è e come merce è oggetto di quel luogo artificiale che è il mercato!
    E così la singola persona e il suo carattere identificativo, la dignità, non hanno più cittadinanza in Italia con buona pace della fumosa frase “la persona al centro” e aggiungo “del mirino di un fucile?
    Mi scuso per la lunghezza, ma riflettere su questi principi-valori, per me, è ancora importante

    Reply
  3. La Costituzione pretende una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. E per valutare il rispetto dell’equità e della dignità bisogna considerare la proporzione tra la retribuzione percepita e la qualità e la quantità del lavoro svolto. Un criterio che deve prevalere sulla contrattazione collettiva nel caso questa non l’abbia rispettato. La Cassazione penale (sentenza 2573 del 2024), conferma condanna per caporalato e sequestro dei terreni dove erano impiegati i lavoratori sfruttati anche se non di proprietà degli imputati.
    Meno male che ancora ci sono giudici … a Roma!

    Reply

Commenti