Alimentaristi o metalmeccanici?

“Quando una Federazione firma un Contratto è una Festa per tutta l’Organizzazione”

Scriveva proprio così, comprese le maiuscole messe rigorosamente a sproposito, Sua Eccellenza il dottor Sbarra dell’Anas in una circolare emanata l’11 febbraio del 2016 e indirizzata a tutte le strutture della Fai commissariata.

Il motivo di quella lettera era il contratto degli alimentaristi da poco firmato, quello che lui aveva subito indicato come  l’esempio al quale si sarebbero dovute attenere le altre federazioni con i loro contratti. E lui, che in quel momento era ancora segretario confederale, parlava anche a nome di Via Po 21. Solo che Claudio Chiarle, segretario della Fim di Torino, aveva osato dire che per lui da prendere ad esempio in quell’accordo c’era poco o niente, e allora il dottor Sbarra dell’Anas si era offeso ed aveva buttato giù due pagine di accuse a Chiarle, sgradevoli insinuazioni “sulle ragioni e gli ambienti che lo hanno effettivamente mosso” e di sfida a fare qualcosa di meglio nelle difficili trattative in corso per il contratto dei metalmeccanici.

Ora che il contratto dei metalmeccanici è stato fatto, e tutti battono le mani (trovate una piccola rassegna di commenti nel nostro secondo blog a questo link) è il momento di riprendere gli atti di quella memorabile polemica e capire chi ha avuto ragione. Chi ha fatto meglio di chi, e perché.

In effetti, i due contratti sembrano aver seguito filosofie diverse, e al limite opposte. Quello degli alimentaristi ha puntato tutto sul poter dire “abbiamo avuto l’aumento” (105€  a regime), ed a questo obiettivo ha sacrificato tutto il resto: ha fermato la contrattazione aziendale per un anno anche se nella circolare di febbraio il dottor Sbarra dell’Anas lo negava, e le ha tolto margini di manovra anche per dopo la fine della moratoria; ha allungato la vigenza del contratto nazionale a quattro anni spacciando la cosa per una conquista; ha rinunciato ad usare al meglio le leve alternative di sostegno al reddito con le quali si cerca di evitare che le tasse si mangino l’aumento. Come qualcuno aveva scritto subito su questo blog.

Quello dei metalmeccanici sceglie una strada in parte diversa: di fronte all’attacco al contratto nazionale della controparte ne ha difeso la funzione di garanzia di base comune a tutti, con un aumento che, pur modesto, lascia ora spazio alla contrattazione aziendale per contrattare aumenti legati alla produttività. E ricorre poi ad altre forme di sostegno al reddito che sono meno soggette al peso del fisco di ciò che va direttamente in busta paga.

Anche fatta la tara sul trucco di chiamare “aumento” cose che aumento non sono, la strategia scelta dai metalmeccanici sembra quella più giusta, per i lavoratori e per il sindacato come soggetto contrattuale. Se infatti i criteri per chiedere l’aumento sono due, la difesa dall’inflazione e la partecipazione all’aumento della produttività, meglio avere un aumento legato all’inflazione a livello nazionale, anche se è poco, ed andare poi a stanare gli aumenti di produttività, ma anche a stimolarli, nelle varie aziende dove ci sono situazioni diverse.

Certo, nell’uno e nell’altro caso siamo ancora qui a parlare in termini di moderazione salariale, cioè nei termini cristallizzati con la concertazione degli anni ’80 e ’90 per abbassare l’inflazione. Ma oggi l’inflazione è a zero, e semmai va fatta crescere, ed è stato Mario Draghi ad aver detto che “the case for higher wages is unquestionable“, è fuor di discussione che bisogna far crescere le retribuzioni. E così, il presidente della Bce scavalca a sinistra i sindacalisti!

Visti alla luce della necessità di aumentare le retribuzioni anche in funzione anti-deflazione, sia il contratto degli alimentaristi che quello dei metalmeccanici sono tutt’altro che la riforma necessaria alle relazioni industriali italiane. Quella ci sarà quando troveremo la strada per uscire dal paradigma della moderazione salariale.

Solo che il contratto dei metalmeccanici, a differenza di quello degli alimentaristi, fa almeno un passettino nella direzione più utile, perché evita di assorbire tutta la dinamica salariale a livello nazionale e così lascia aperta la strada ad una contrattazione espansiva a livello aziendale.

In breve, anche se il confronto fra la cifra dell’aumento sembrerebbe dire che hanno fatto meglio gli alimentaristi; chi fa il sindacalista capisce subito che quel numero è un’illusione ottica. E comunque, se ora tutti dicono che il contratto dei metalmeccanici è l’esempio giusto, allora vuol dire che quello degli alimentaristi era quello sbagliato. E quindi che  nella polemica di febbraio aveva ragione Chiarle. Che infatti, a differenza di Sua Eccellenza il dottor Sbarra dell’Anas, fa il sindacalista. E il sindacalista della Cisl. Un’organizzazione che, quando aveva un’identità, sapeva che bisogna puntare forte sulla contrattazione aziendale.

Ma la Cisl di oggi che posizione ha? La linea da seguire è quella degli alimentaristi o quella dei metalmeccanici?

Ecco ciò di cui dovrebbe discutere il congresso, se la Cisl fosse ancora un’organizzazione veramente sindacale, e non fosse ridotta ad una serie di caselle da occupare con persone fedeli a questo o a quella.

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7 Commenti - Scrivi un commento

    1. Quindi i quattro punti di contingenza del 1984 era meglio non tagliarli, vero? Ma poi i lavoratori non ci hanno creduto e hanno votato NO al referendum dell’anno dopo, E i fatti dicono che hanno fatto bene.

      Anche perché “con un no ti spicci e con un sì ti impicci”

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      1. Se c’è bisogno di uscire dalla moderazione salariale allora 105 è molto, molto meglio di 51.
        Giusto? Oppure vogliamo istituire una nuova scala mobile?

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        1. Primo: se 105 vuol dire 105, allora è molto più di 51, come dice monsieur de la Palisse. Ma se il fisco se ne mangia la metà, la differenza si fa più piccola.

          Secondo: se 105 vuol dire 105 e basta per due anni fra moratoria e riavvio della contrattazione aziendale, mentre 51 vuol dire 51 più il contratto aziendale, il discorso si fa più equilibrato.

          Terzo: che differenza c’è fra la scala mobile e un contratto nazionale rinnovato in base all’inflazione (ora addirittura ex post)? Siamo sicuri che le cose siano cambiate di molto?

          Quarto: la scala mobile fu tolta perché creava inflazione. Oggi se avesse ancora quell’effetto ci sarebbe da reintrodurla di corsa. Solo che ormai siamo in deflazione e quindi è uno strumento spuntato sia per i lavoratori che per l’economia nazionale. Esattamente come lo è il contratto nazionale, che ormai redistribuisce le briciole (105 o 51 che siano).

          Allora, meglio dare più spazio alla contrattazione aziendale. Giusto?

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          1. Primo: su secondo livello e welfare contrattuale mi risulta che il ccnl alimentaristi introduca parecchie buone novità, vedasi contrattazione territoriale e integrazione naspi.
            Secondo: la tanto vituperata moratoria assicura premi di produttività negoziati in tempi di inflazione, e quindi mediamente alti. E comunque non ha impedito di fare begli accordi di gruppo in questi mesi.
            Terzo: i conti sul decentrato si fanno sempre alla fine. Vedremo. Per il momento regna de la Palisse: 105 è meglio di 51.
            Salute.

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  1. Era prevedibile che l’ambizione avrebbe portato, gli aspiranti galli cresciuti all’ombra della chioccia Furlan, a beccarsi e di questo passo il terzo candidato all’oscar dei fregnaroli è il Bernava che già scalpita. Ma la cosa migliore che possono fare tutti è tacere perché, ogni loro intervento demolisce un pezzo della ormai sempre più diroccata CISL.
    La frittata che ci hanno confezionato con governo e confindustria è tanto speciale (e per loro indigesta) che neanche osano immaginarlo. Allora provo a spiegarlo io con pochi concetti, semplici e chiari, partendo dal capitale primario per un politico, sindacalista, o chiunque abbia a che fare con le relazioni umane quale è la fiducia. Non mi stancherò mai di ripeterlo, è questo il vero problema che sta alla base di tutti gli altri. Perché se i soldati vanno all’assalto, col comandante in testa che dà il buono esempio, lo seguono, ma se si mette in coda o non partecipa allora le cose cambiano e come.
    E qui torniamo alla fiducia dei lavoratori nei propri rappresentanti, abbondantemente scesa sotto i piedi perché, i prodi don chisciotti se ne guardano bene dal dare l’esempio, anzi perseverano nel peccato, continuando a occupare posti la cui indegnità è ampiamente dimostrata dai trattamenti che si riservano, incuranti di violare le più elementari regole del galateo etico-morale anzi lo fanno in modo sprezzante al punto di menarne vanto.
    E poi prendono in giro i lavoratori con la sceneggiata del contratto che recupera a posteriori l’inflazione, quando da anni siamo in deflazione. Sapete dove ci porta questo? Molto probabilmente, nel giro di qualche anno (di sicuro prima del prossimo contratto) continuando la deflazione ci chiederanno i soldi indietro (guardate che non sto scherzando con i pensionati hanno cominciato a saggiare il terreno). Ma allora di che stiamo parlando del welfare ma avete letto le cifre? se va bene bastano a pagare una volta qualche piccolo ticket o poco più. I giovani sindacalisti non lo sanno ma negli anni sessanta c’erano già le mutue categoriali e furono sostituite col sistema sanitario nazionale per la loro scarsa efficienza e adesso si gioisce per il ritorno all’antico; contenti voi contenti tutti. Provare per credere. Che il problema sia la fiducia e non solo i soldi lo si capisce dalla quantità dei soldi in circolazione o meglio che risultano in giro alla banca d’Italia e alla BCE ma che però vengono tenuti rigorosamente parcheggiati; questo è tanto vero che per obbligare a spenderli gira voce che i governanti abbiano deciso il ritiro dalla circolazione dei tagli da 500 e 200 euro per rendere più difficile la tesaurizzazione o esportazione.
    Che non sia l’inflazione, la soluzione del problema è semplice da spiegare rispondendo a questa domanda. Come mai quando l’inflazione era a due cifre tutti le addebitavano ogni male? Eppure secondo la logica odierna avremmo dovuto gioire. Perché si tratta di fiducia; personalmente ricordo che agli inizi degli anni sessanta la fiducia era tanta, nel prossimo, nella politica e nel futuro che si comprava tutto e di più, senza avere un soldo in tasca, firmando farfalle (cambiali). Oggi invece i soldi anche quelli che ce l’hanno non li spendono; e questo potrà cambiare solo con una rinnovata dirigenza che si comporti in modo coerente con quello che predica e con comportamenti simili a quelli che chiede ai cittadini mettendo al bando qualsiasi privilegio. In parole povere riconquistandosi la fiducia. Tutto questo nella speranza che non sia troppo tardi.
    Luigi Viggiano

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