Libertà di parola/il salario di cittadinanza

Il nuovo contributo di Luigi Viggiano propone alla Cisl di discutere il tema del salario di cittadinanza. Che è uno strumento che esiste in molti altri paesi, e per il quale esistono argomenti seri a favore, ma ne possono essere portati anche alcuni più critici.

In ogni caso si tratta di un dibattito più serio, più urgente e più adeguato ai problemi della contemporaneità rispetto alla ridicola illusione di uscire dalla crisi delle relazioni industriali con l’attuazione di un ferrovecchio come l’articolo 39 della Costituzione.

www.il9marzo.it

——————————————————-

Ricordando ai dimentichi il primo articolo della nostra Costituzione che recita “l’Italia é una Repubblica fondata sul lavoro” sento il dovere di richiamare gli attuali dirigenti ad onorare la storia del sindacato e la Costituzione Repubblicana, in continuazione con quelli che li hanno preceduti. Cominciando, per esempio, a battersi per un salario di cittadinanza dignitoso ai disoccupati; cosa che peraltro avviene da anni nei paesi del nord Europa.
Per motivare la richiesta parto da un dato di fatto inconfutabile e cioè che il sentire comune, fondato sull’idea che associa lavoro a libertà rendendoli interdipendenti (senza l’uno non esiste l’altra) è una idea superata perché, l’era del lavoro nato con la rivoluzione industriale (fatto di centri industriali circondati da grosse periferie urbane) é finito da parecchi anni.  Inoltre non tiene conto del fatto che, a livello globale la forza lavoro oggi é abbondantemente superiore al necessario, si stima che per produrre l’attuale Pil mondiale basterebbero 300 milioni di lavoratori.
E quando il lavoro manca? I dati ci dicono che aumentano i suicidi (sia dei lavoratori che degli imprenditori). La delocalizzazione, e soprattutto l’automazione, producono disoccupati a go go. Oramai è arcinoto a tutti che una parte del lavoro umano non serve più. Ecco perché se non saranno previsti strumenti come: il salario di cittadinanza, la riduzione dell’orario di lavoro, investimenti in settori produttivi ad alta occupazione e soprattutto una redistribuzione delle ricchezze (secondo un recente studio della Oxfam i 62 uomini più ricchi del pianeta hanno un patrimonio equivalente a quello di 3,6 miliardi di persone più povere). E’ dunque evidente che proseguendo su questa strada, inevitabilmente s’impatterà in un conflitto sociale (anticamera della guerra). Attiviamoci dunque affinché chi di dovere rinsavisca per tempo e si adoperi per evitare un simile DRAMMATICO epilogo.
Come detto oggi ci sono persone che si uccidono o muoiono per il troppo lavoro e altre che patiscono la stessa sorte perché di lavoro non ne hanno. Ecco perché, dovremmo recuperare il nostro motto “lavorare meno lavorare tutti”. Se i sindacati avessero seguito questa strada per tempo non ci troveremmo nell’attuale disastrosa situazione.
Nemmeno l’uomo primitivo dedicava tanto tempo per garantirsi la sopravvivenza. Dall’inizio della prima rivoluzione industriale ad oggi si è capovolto il significato del lavoro (prima si lavorava per vivere OGGI SI VIVE PER LAVORARE); guardate che non è un semplice gioco di parole bensì di un concetto che unito ai bisogni indotti in modo sublimale, quasi sempre effimeri, hanno permesso di sostituire le catene degli schiavi di una volta.
Non dimentichiamoci che per millenni, nelle società antiche e fino al sorgere delle prime manifatture e dei relativi commerci, il lavoro coincise con la vita, il cui trascorrere poteva essere penoso o meno, ma non era scisso in tempi separati. Una diversa natura del lavoro apparve invece nelle società urbane che segnarono la transizione dal VECCHIO al NUOVO modo di produrre. Nel vecchio il lavoro era inteso come attività per ottenere un semplice valore d’uso e non come (accade oggi) mezzo per produrre valore di scambio. Che ci si dedicasse all’agricoltura, alla produzione di oggetti o a riposare, lo scorrere del tempo “lavorando” era la condizione naturale dalla nascita alla morte. Pensate che ancora oggi esistono popolazioni che non hanno nel loro linguaggio un termine per indicare il lavoro nel modo che lo intendiamo noi “civilizzati”.
Se era necessaria un’opera pubblica, tutta la società si metteva all’opera finché non era terminata; se il re costruiva una nuova città radunava la popolazione e ne utilizzava il tempo disponibile rispetto all’attività agricola; alla fine, quel prodotto del lavoro non era di qualcuno in particolare. Nell’antichità non esisteva il corrispondente della parola “operaio” e tantomeno di “schiavo”. Tra l’altro c’è da dire che in passato, era considerato miserabile l’uomo “libero” (pastore, cacciatore, contadino, ecc.) mentre il “servo” (scriba, artigiano ecc.), che partecipava alla vita dei re e dei funzionari, era un privilegiato.
Ancora oggi quando un traduttore di scritture scrive “operai”, mette il termine tra virgolette anche quando nel testo si parla di uomini che ricevono un corrispettivo per il loro lavoro, in genere applicato alla costruzione di opere “pubbliche”. E comunque il lavoro veniva pagato sempre in beni di consumo per la sopravvivenza dei lavoratori e della loro famiglia, collettivamente, non in base alla quantità di lavoro erogato dagli individui.
Era normale che degli artigiani venissero utilizzati per il raccolto e, al contrario, dei contadini venissero chiamati alla costruzione di mura e canali.
Il “vasaio” o il “carpentiere” erano uomini che, come tutti gli altri, si dedicavano ad una produzione sociale; le loro particolari abilità erano utilizzate soprattutto per attività sporadiche.
La condizione descritta si mantenne per tutto il medioevo e fino alle soglie della grande rivoluzione produttiva e demografica del XVII secolo. L’orario non era mai prefissato perché, in genere coincidente con le ore di luce dall’alba al tramonto.
Il progresso che ne é derivato e tanto bene ha fatto all’uomo non gli ha però regalato la libertà dal lavoro coatto, svolto in una giornata lavorativa che non si è affatto accorciata, dato che oggi nel mondo si lavora più che nel Medioevo, anche escludendo il tempo dovuto agli spostamenti per raggiungere il luogo di lavoro.
Fino al 1962, anno in cui ebbe termine definitivamente il “patto del lavoro” tra Stato e sindacati per la ricostruzione postbellica, il tempo di lavoro in Italia era “parametrato” a 200 ore mensili (cioè un mese medio valeva 200 ore di lavoro nei calcoli per liquidazioni, permessi, ferie ecc.). La prassi prevedeva all’incirca una giornata lavorativa di nove ore al giorno con un sabato lavorativo di cinque ore per gli operai; nell’anno le ore di lavoro erano dunque circa 2.400, un numero molto alto.
Il prolungamento della giornata lavorativa ha oggi effetti diversi che nel passato; perché non avviene più in un mondo arretrato dove aumentando il numero degli operai ed impiegandoli per più tempo si aumentava il plusvalore; oggi il plus valore oltre che dalle ore di lavoro dipende molto dall’introduzione di processi produttivi moderni e scientificamente organizzati, per cui una quantità enorme di produttività é dovuta alle macchine e procedure che aumentano il rendimento del lavoro. Di conseguenza il lavoro produttivo è sempre più concentrato su meno lavoratori, mentre il resto della popolazione si dedica a lavori inutili, oppure rimane inoccupata. Di fatto una parte sempre più alta della popolazione risulta del tutto superflua.
Nella situazione data allora, pensare di aumentare l’occupazione è fuori luogo come lo é la difesa dei posti di lavoro che l’evoluzione tecnologica, irreversibilmente cancella. La cosa più razionale che si può fare é di pagare direttamente i disoccupati piuttosto che tenere in piedi una pletora di attività non più produttive. D’altra parte se per un verso servono meno lavoratori per un altro servono sempre più consumatori visto che tutto ruota (finché dura) attorno ad uno sfrenato consumismo al punto che si potrebbe tranquillamente sostituire il primo articolo citato con “l’Italia è una Repubblica fondata sul consumismo”.
Savona, 1 febbraio 2016

L u i g i      V i g g i a n o
F  N  P            S  A  V  O  N  A

Condividi il Post

Commenti