Il territorio, i territori

“Il territorio deve diventare privilegiata frontiera di azione della Fai”. Lo ha detto il dottor Sbarra dell’Anas, parlando come commissario della Fai alla conferenza organizzativa di Fiuggi.

Ora, se uno non conosce la verità, leggendo queste parole pensa che la Fai prima del suo avvento fosse una federazione tutta romano-centrica, chiusa nelle poche stanze di Via Tevere 20 e nella quale i territori erano un’appendice poco rilevante.

Naturalmente la realtà è tutta l’opposto. La Fai è sempre stata una federazione impostata sulla dimensione territoriale più di qualunque altra. Anche più della Filca, tanto è vero che uno dei motivi della ribellione finale nella notte dell’Ergife è stato il rifiuto di un modello organizzativo in cui il governo della nuova federazione si sarebbe giocato fra livello nazionale e livelli regionali (questi ultimi quasi tutti destinati alla Filca…) e marginalizzando il ruolo delle dirigenze territoriali (che invece sarebbero state ripartite più o meno a metà, tanto non avrebbero avuto molto peso).

Ad esempio, negli anni ’90 la (allora) Fisba fece una rivoluzione contrattuale, anche contro le indicazioni di Via Po 21, assegnando al livello territoriale il peso più importante nella regolazione dei rapporti di lavoro nell’agricoltura. E poco dopo, la costruzione di una federazione col baricentro nei territori è stato il punto sul quale è stata realizzata la Fai, che ha fondato la propria identità lungo le filiere dell’agroalimentare, che sono fortemente legate al territorio. Tutte cose che il dottor Sbarra dell’Anas ignora perché lui in questi anni si è occupato d’altro (magari di completare la Salerno-Reggio Calabria).

Insediatosi a Via Tevere con la scusa di fare lo scioglimento rifiutato dal congresso (e che fosse una scusa lo dicono i documenti che lui ha fatto votare, dove è scritto che lo scioglimento della Fai, ora che a lui non interessa, non si fa più) il dottor Sbarra dell’Anas ha governato secondo una tipica logica centralistica. Che non vuol dire sopprimere i territori, ma togliere ruolo e responsabilità, magari alzando il volume dell’inutile retorica (che vuol dire territorio “frontiera” d’azione?) e aumentando le risorse (che sono state spostate verso alcune province e tolte ad altre secondo la logica dello scambio fra risorse e sostegno politico). Al tempo stesso ha inventato un direttorio con i segretari regionali (inesistente negli statuti), potendo decidere tutto senza quel fastidioso consiglio generale dove c’è sempre qualcuno che si può alzare e dire la sua (anche perché ci sono molto territori che hanno più peso politico di certe regioni i cui segretari, o sub-commissari che siano, si trovano ad essere fin troppo valorizzati rispetto alla loro reale importanza).

Una lezione del professor Costantini (già, chi era costui?) quando si facevano i corsi di formazione nella Fai libera era quella di ricordarsi sempre che politiche contrattuali e politiche organizzative vanno assieme. Non può esistere un sindacato che contratta seriamente sul territorio se l’organizzazione del sindacato non è fondata nei territori (quindi al plurale; non sul territorio che, detto al singolare, è un’astrazione. Come nei documenti di Fiuggi); se la linea politica nazionale sulla contrattazione, non è il frutto di una dialettica spesso difficile e mai unanimistica; e se chi firma il contratto locale non risponde innanzitutto ai soci sul suo territorio invece di dover pensare prima di tutto al consenso di chi ti manda le risorse dal livello regionale, nazionale o confederale che sia.

Anche durante il fascismo c’erano i contratti provinciali. Ed era il massimo del centralismo sindacale. Perché il problema non è mai l’ingegneria contrattualistica e organizzativa ma l’esercizio della libertà sindacale a partire dal socio, quindi dal basso verso l’alto. Altrimenti anche la dimensione territoriale serve solo al controllo dall’alto verso il basso. Come durante il fascismo. E come nella Fai commissariata.

Dobbiamo dunque sperare nei territori? Certo, se pensiamo alla candida ammissione di quel segretario territoriale della Fai autore di una mail a Scandola in cui confessa che a lui interessano solo il suo lavoro quotidiano, lo stipendio a fine mese, e conservare i suoi quattro iscritti (o otto, o sedici o trentadue che siano) dai quali farsi confermare il mandato, le speranze non sono molte.

Ma se c’è ancora vita sul pianeta Fai, il tempo per farsi sentire c’è. Almeno fino al congresso di fine commissariamento. Dopo sarà troppo tardi. E avrà vinto il sistema attuale, che garantisce la minestra a tutti, tranne a due o tre accusati di essersi messi di traverso, in cambio del consenso.

Un modello un po’ troppo simile a quello fascista per poter essere tollerabile da una federazione con la storia della Fai.

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Un Commento - Scrivi un commento

  1. Ho letto che il dottore Sbarra è arrivato alla segretaria nazionale della Cisl, il 16 dicembre 2009 all’età di 49 anni e che ha cominciato la sua carriere nel 1984 al centro studi di Taranto all’età di 24 anni.
    Domanda, da quale categoria proviene e per quanto tempo vi ha lavorato? Non ho assolutamente nulla contro il dottor Sbarra, ma il suo esempio calza a pennello per parlare di un malcostume molto diffuso (mi dicono nella Cisl) che è quello di occupare il potere confederale con persone che di fatto sono stipendiati dal sindacato.
    Per carità, nessuna remora nei loro confronti, ognuno fa quello che può; però consentitemi di dubitare sulla loro autonomia di giudizio al momento di doversi esprimere; inevitabilmente e senza colpo ferire scatta il meccanismo di autoconservazione e dunque dell’italianissimo “tengo famiglia”. Vi pare democratico tutto questo? Anche così si costruisce l’unanimismo. Poi non meravigliamoci se gli iscritti non ci capiscono; e come potrebbero se gli interessi sono diversi?
    Non pensate che alla prossima assemblea organizzativa sarebbe opportuno proporre un censimento di questi iscritti alquanto atipici?
    Perdonatemi ma cosa volete sono :
    UN VISIONARIO

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