La bocciofila e il diritto

admin 23 luglio 2017 5 Commenti

L’espulsione di Bruno Della Calce sancita da un collegio sciolto in seguito al commissariamento, per imputazioni ridicole (l’invito a dimettersi dagli incarichi, come aveva fatto lui, spacciato per invito a dimettersi dalla Cisl, cosa che lui per primo non aveva fatto) e con motivazioni rivelatrici di un costume incompatibile con la democrazia (come aver propagandato le sue idee e strumenti di divulgazione come questo sito), oltre che nel dispregio delle garanzie difensive è l’ultimo episodio di una lunga serie.

Negli ultimi tre anni si contano infatti tantissimi casi in cui gli strumenti giuridici sono stati usati come strumenti di potere invece che di garanzia del diritto e dei diritti.

Alcune di queste vicende sono state portate alla magistratura ordinaria, che però finora si è sempre scaricata di ogni responsabilità con decisioni che nulla hanno deciso nel merito (ci riferiamo in particolare all’impugnazione del commissariamento della Fai ed all’espulsione di Fausto Scandola). Altre vicende devono essere esaminate in Tribunale (il commissariamento d’urgenza della Fp con motivazioni fragili e senza il rispetto della garanzia del contraddittorio), ed altre potrebbero essere portate davanti ai giudici. Mentre siamo ancora in attesa di capire cosa accadrà a Napoli, dove fra denunce e controdenunce è la procura della Repubblica che si sta occupando della Cisl ed ha ascoltato, oltre a Lina Lucci, anche il segretario generale in carica e il suo predecessore. Senza dimenticare il licenziamento di Giampiero Bianchi dalla Fai ad opera del dottor Sbarra dell’Anas, lo ripetiamo per dar fastidio a chi non vuole che si dica, al quale era stato contestato come illecito disciplinare aver esultato ad alta voce alla notizia delle dimissioni di Raffaele Bonanni.

Tutto questa perversione degli strumenti giuridici non è senza significato: vuol dire che nella Cisl si è persa ogni connessione con l’idea di un diritto che sia garanzia dei soggetti e delle persone, e si è affermata la concezione del diritto come ulteriore strumento in mano al potere. Un’arma della maggioranza invece che una garanzia delle minoranze, dei dissenzienti e dei singoli.

Di solito si dice che queste cose dimostrano l’insufficienza di un inquadramento giuridico dei sindacati fra le associazioni non riconosciute, “come una bocciofila”. Ma la verità è che neanche una bocciofila deve poter essere amministrata attraverso strumenti che sono la negazione stessa dell’idea di un diritto uguale per tutti.

Evidentemente c’è bisogno di una riflessione su cosa voglia dire libertà di associazione sindacale, intesa come libertà delle persone che si associano e non come arbitrio di chi ha il potere nell’organizzazione, tanto poi i giudici non intervengono con l’alibi che “queste sono organizzazioni non riconosciute, come una bocciofila”. Una riflessione seria, non strumentale a sostenere questa o quella posizione di potere, ma a ridefinire il significato di parole come associazione, democrazia, rappresentanza, diritto come limite del potere. Se la Cisl non ha alcun interesse a queste cose, forse toccherà a noi trovare il modo di tornare a porre il problema della posizione giuridica del sindacato e dei soggetti, persone e federazioni, dentro alle confederazioni sindacali.

Intanto seguiamo con vivo interesse le vicende dell’impugnazione del commissariamento Fp, che sarà discusso in tribunale a partire dall’autunno, e di quel che deciderà di fare Bruno Della Calce per contestare la sua espulsione. Perché, prima o poi, ci sarà un giudice a rendersi conto che certe cose non sono ammissibili neanche in una bocciofila.

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5 Commenti – Scrivi un commento

  1. ANONIMO · Edit ESSERE PARAGONATI AD UNA BOCCIOFILA VI FA PROPRIO Reply
  2. Anonimo · Edit Il diritto questi lestofanti lo hanno cancellato dal loro vocabolario da un bel po di anni.
    LIBERTA’ SINDACALE E SOLITUDINE DEL LAVORATORE
    UN MALE CHE LA TRIMURTI DECISE DI ALIMENTARE INVECE CHE COMBATTERE Posted di Alessandra Algostino
    C’erano una volta sindacati che agivano nel conflitto sociale nella prospettiva, per dirlo con Mortati, di conferire «ai lavoratori un’efficienza capace di contrapporre efficacemente la loro forza a quella che deriva dal possesso dei beni». Ora, il sindacato aziendale e morbido, strutturalmente inserito nella logica dell’impresa.
    Il conflitto è negato, assorbito, sedato, ridotto al silenzio: sindacati e “padroni” «assumono la prevenzione del conflitto come un reciproco impegno su cui il sistema partecipativo si fonda» (sic l’Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010). E nel conflitto fantasma i lavoratori sono sempre più soli, frammentati e deboli, di fronte ad un potere sempre più pervasivo ed arrogante.
    La contrattazione collettiva nazionale scompare sostituita da una contrattazione aziendale dotata del potere di derogare anche alla legge, quando non tout court da una contrattazione individuale.
    La ratio riequilibratice che consente, attraverso la mediazione di sindacati, di organizzare la forza del numero contro quella del possesso dei mezzi di produzione è cancellata dalla fictio di contraenti in condizioni di parità e accomunati dal medesimo obiettivo. Libertà contrattuale e lavoro autonomo occultano condizioni sempre più servili del lavoro dipendente; dietro la libertà della partita Iva si nasconde la solitudine del lavoratore.
    I sindacati divengono aziendalizzati, non solo nel senso che sono sempre più strutturati a livello di azienda, ma anche nel senso che sono sempre più parte della logica aziendale, nel nome della competitività. Ad esserne colpito è il ruolo dell’organizzazione sindacale, la sua autonomia e il pluralismo sindacale, costituzionalmente garantiti e promossi dall’art. 39 della Costituzione.
    La vicenda del Testo unico sulla rappresentanza siglato il 10 gennaio 2014 fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ben si inserisce in questo quadro rappresentando un tassello della liquidazione dei sindacati dal loro ruolo di mediatori nel conflitto sociale, lasciando il lavoratore sempre più solo nel “libero” gioco del mercato.
    Il Testo unico sulla rappresentanza non è, a sua volta, che l’ultimo atto di un trittico, ideale e normativo, di cui fanno parte anche l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e il Protocollo di Intesa del 31 maggio 2013, non a caso più volte richiamati nel primo.
    È un trittico parte di un processo più ampio. Da un lato, si assiste alla medie-valizzazione e privatizzazione delle relazioni industriali, sempre più improntate ai canoni del un bio-potere aziendale esercitato sul singolo individuo, mentre il diritto del lavoro e i diritti dei lavoratori sono de-strutturati, resi sempre più flessibili e sostituiti dall’imperitura legge del più forte.
    Dall’altro lato, la crisi della mediazione sindacale collettiva è parte di un processo più ampio di individualizzazione del rapporto politico, che con facile vulgata populista si accomunano nella stigmatizzazione i partiti, quale forma di espressione politica collettiva (e, quindi, per estensione, la politica tout court) e i sindacati .
    sull’accordo, si possono segnalare, due meta profili critici, che feriscono il ruolo del sindacato e segnano, fra l’altro, una netta distanza rispetto alla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013.
    La prima questione riguarda il pluralismo e la libertà sindacale – la loro negazione-, in particolare nel rapporto maggioranza versus minoranze, che veicola poi il secondo profilo, che si può sintetizzare come anestetizzazione del dissenso e negazione del conflitto.
    Il Testo unico, come recita il titolo, riguarda la rappresentanza, dunque, si propone di intervenire sul tema controverso dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
    Ricostruendo, in estrema sintesi, la storia della rappresentanza sindacale e del dibattito intorno all’art. 19 dello Statuto, si può rilevare come la rappresentatività sia declinata secondo una duplice fattispecie.
    Da un lato, vi è la constatazione di un fatto, l’emersione di alcune confederazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, alle quali si riconosce una sorta di presunzione di rappresentatività, necessaria e sufficiente a costituire il titolo di accesso ai diritti specifici delle rappresentanze sindacali aziendali. Non è una categoria chiusa ma è chiaro il riferimento a CGIL, CISL e UIL, le tre confederazioni sindacali storicamente dominanti. Dall’altro lato, la rappresentatività è dedotta dalla capacità del sindacato di apporre la propria firma in calce ad un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva.
    Nel primo caso, la tutela privilegiata favorisce i sindacati di maggioranza, con connessa discriminazione delle minoranze, e la conservazione di una dinamica delle relazioni industriali legata, ex parte sindacale, alle scelte di quella che, significativamente, è soprannominata la Trimurti. Nel secondo caso, specie con la possibilità che i contratti siano stipulati a livello di azienda, si palesa il rischio della formazione di sindacati gialli, ovvero di comodo, creati o controllati dal datore di lavoro.
    L’art. 19, come è noto, nel 1995 è sottoposto a referendum: la questione è l’esclusione, o potenziale esclusione, di alcuni sindacati dalla possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali e, di conseguenza, accedere alle specifiche tutele previste dal titolo III dello Statuto, con la formazione di due status differenti: sindacati protetti unicamente dalla libertà sindacale e sindacati garantiti ex titolo III.
    L’esito del referendum comporta che la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali sia legata alle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
    Ciò rende possibile una interpretazione “in eccesso”, che veicola la legittimazione di sindacati privi di una reale rappresentatività, se non tout court di comodo. La disciplina di risulta del referendum del 1995 produce, come è noto, però anche l’effetto di abrogare la presunzione di rappresentatività dei sindacati maggiormente rappresentativi, con la possibilità di interpretare il requisito della firma “in difetto”, ovvero come legittimazione ad escludere dalla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali anche sindacati ampiamente rappresentativi (se non maggioritari) ma contrari alla sottoscrizione del contratto.
    Questo secondo effetto non crea peraltro problemi sino ad oggi, quando, con il mutare delle relazioni industriali, la prassi degli accordi separati e la spregiudicatezza del Gruppo Fiat, si verifica l’esclusione della Fiom, con l’innescarsi di una dura controversia Fiom-Fiat, che vede al fine l’intervento della Corte costituzionale.
    Torniamo però ora, chiarito il quadro, al Testo unico sulla rappresentanza e, in particolare, alla prima questione: la negazione del pluralismo e della libertà sindacale e la dittatura della maggioranza.
    Innanzitutto si può rilevare un riferimento continuo, finanche ossessivo, alle organizzazioni sindacali firmatarie dei tre accordi interconfederali sulla rappresentanza o a quelle che comunque vi abbiano effettuato adesione formale. Ciò avviene, ad esempio, in relazione alla costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie, per la presentazione delle liste o quando si ragiona di requisiti per la contrattazione collettiva.
    Si introduce una netta distinzione fra le sigle firmatarie, o comunque, convergenti nella maggioranza e nel sistema dei tre accordi sulla rappresentanza, e chi sta fuori, destinato ad un progressivo ostracismo.
    Emblematica è la parte relativa alla titolarità per la contrattazione collettiva e al riconoscimento delle tutele del titolo III dello Statuto. Nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale vengono riconosciute come «partecipanti alla negoziazione» le organizzazioni sindacali che, oltre ad aver raggiunto il 5% di rappresentanza, «hanno contribuito alla definizione della piattaforma» (quale piattaforma? quella di maggioranza?) e «hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c..c.n.l.» (di nuovo, in relazione alla piattaforma di maggioranza?). In sintesi: i partecipanti al negoziato sono solo quelli convergenti nella piattaforma di maggioranza? Si escludono (violando la sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013) le minoranze, ma non solo, ad essere estromesso può essere anche il sindacato più rappresentativo. Si pensi al caso in cui la Fiom, che possiede molto spesso ben più del 5% di rappresentanza, non sottoscriva il c.c.n.l. siglato dagli altri sindacati che, in alleanza, raggiungono la maggioranza: può venir considerata non partecipante e perdere tutte le tutele riconosciute alle rappresentanze sindacali aziendali. Facile ragionare di conventio ad excludendum.
    Si configura una dittatura della maggioranza, dove contratti sottoscritti con il «50% + 1 della rappresentanza», previa una fantomatica «consultazione certificata» (un voto?), a maggioranza semplice, sono «efficaci ed esigibili» per tutti i lavoratori. Si introduce così fra l’altro una sorta di efficacia erga omnes, che prescinde non solo dal meccanismo di registrazione dei sindacati previsto dall’art. 39 Cost. ma anche da qualsivoglia passaggio legislativo. Un patto fra privati che si autoriconosce l’efficaciaerga omnes? La privatizzazione del diritto sotto nuove vesti.
    Quanto alla contrattazione aziendale, si ribadisce innanzitutto l’ampia possibilità di deroga del contratto aziendale (che, ex art. 8, c. 2 bis, l. 148 del 2011, riguarda anche la legge), con la conseguente parcellizzazione e liquefazione del diritto del lavoro, e dei lavoratori. Anche a livello aziendale si assiste, inoltre, ad un chiaro favore per la maggioranza: in presenza di contratti approvati dalle RSA costituite nell’ambito delle associazioni sindacali destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali, è previsto il voto solo se richiesto da una delle confederazioni firmatarie o da «almeno il 30% dei lavoratori dell’impresa» (ovvero, non una minoranza).
    Si stabilizza e blinda il ruolo egemone nelle relazioni industriali, ex parte lavoratore, della Trimurti.
    È così evidente la violazione arrecata al principio di pluralismo sindacale da indurre a ragionare di negazione della libertà sindacale, in palese contrasto con la sentenza – fresca di adozione – della Corte costituzionale n. 231 del 2013, che della necessità del rispetto della libertà sindacale nelle relazioni industriali à la Marchionne fa il cardine del proprio intervento.
    Ora, senza eccedere nella fiducia nel ruolo salvifico delle Corti, pare difficile prescindere da una sentenza che riporta la voce della Costituzione nel conflitto sociale.
    La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, c. 1, lett. b), Statuto, «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda».
    La Corte si riferisce ad un dato effettivo – la partecipazione alle trattative quale indice di rappresentatività e forza contrattuale – per evitare che una disciplina tesa a garantire maggiore inclusività si trasformi in un meccanismo di esclusione, vanificando l’intento promozionale dello Statuto e la tutela costituzionale della libertà sindacale.
    L’obiettivo è individuare un criterio di rappresentatività nella garanzia del rispetto (sostanziale) dell’autonomia e della libertà sindacale: la partecipazione alle trattative viene giudicata congrua ad integrare tale obiettivo e, dunque, “accreditata” come norma selettiva della rappresentanza privilegiata del titolo III dello Statuto.
    La volontà di tutelare la libertà sindacale permea profondamente la pronuncia, sino a spingere il giudice costituzionale a considerare anche l’ipotesi che, introdotto il riferimento alla partecipazione alle trattative per impedire un uso surrettizio della firma in chiave escludente, l’estromissione possa perpetrarsi «a monte», impedendo ad un sindacato l’accesso alle trattative. In tale ipotesi – il giudice anticipa – interviene la tutela dell’art. 28 dello Statuto, che sanziona la condotta antisindacale del datore di lavoro.
    Una mancanza tuttavia si può cogliere nel percorso della Consulta: cosa succede nell’ipotesi di sindacati che non vogliono partecipare alla trattativa? Se sono estromessi ex parte padrone soccorre l’art. 28 dello Statuto, ma se scelgono per ragioni di politica sindacale di non sedersi – a quelle condizioni, in quel contesto, con quella controparte – al tavolo delle trattative? È razionale la loro esclusione dalla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali e dalle prerogative del titolo III dello Statuto? Se si discorre di sindacati rappresentativi, o anche maggiormente rappresentativi – senza dunque nemmeno revocare in dubbio il doppio binario istituito dal legislatore statutario e la sua scelta “maggioritaria” -, non si viola la ratio del titolo III? Rimane discriminato quel dissenso che, a fronte di tavoli negoziali sbilanciati, rifiuta ab origine un procedimento che nasconde, attraverso un uso fittizio delle trattative, l’imposizione di scelte unilaterali.
    Questo, anche se – e stupisce positivamente – il giudice costituzionale ragiona di «forma impropria di sanzione del dissenso», che condiziona la libertà del sindacato, riportando l’idea del conflitto e della Costituzione nelle relazioni industriali e rompendo la cortina della retorica dell’obiettivo comune fra lavoratore e datore di lavoro, che appiattisce il sindacato sulla logica imprenditoriale, con buona pace del suo ruolo di organizzazione collettiva dei lavoratori e di negoziatore nel loro interesse.
    Le osservazioni sul dissenso ci portano al secondo profilo critico, per usare un termine blando, del Testo unico: l’anestetizzazione del dissenso e la negazione del conflitto.
    In primo luogo si può citare il riferimento alle “consultazioni”, che molto spesso costituiscono una mistificazione della democrazia – che è partecipazione, non consultazione -, ovvero integrano un’operazione di marketing che consente sia di presentare un volto democratico sia di creare l’illusione di “aver partecipato”, così da evitare o limitare il sorgere di future opposizioni. Le consultazioni, fra l’altro – si noti – presuppongono un rapporto diretto fra i lavoratori e i datori di lavoro, senza “bisogno” della mediazione sindacale.
    La parte, tuttavia, che più colpisce per la spregiudicatezza e arroganza è la Parte quarta, che contiene le “Disposizioni relative alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle conseguenze dell’inadempimento”.
    L’obiettivo è «definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate», quindi, «i contratti collettivi nazionali di categoria… dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto [n.d.r.: sic!]».
    Dunque, il conflitto o eventuali opposizioni non devono esistere né durante le negoziazioni né successivamente alla stipula del contratto: non solo dittatura della maggioranza ma negazione di ogni agibilità politica al dissenso.
    E si continua: «i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa». Le sanzioni possono prevedere anche «effetti pecuniari», ovvero comportare «la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa». Non solo negazione di agibilità politica ma vera e propria repressione del dissenso.
    Unica “concessione”: le clausole di tregua sindacale e sanzionatorie non hanno effetto vincolante «per i singoli lavoratori».Non ci si spinge sino ad ignorare che la Costituzione garantisce il diritto di sciopero, oltre che la libertà di manifestazione del pensiero, di riunione, etc., ma lo si svuota, privandolo della forza collettiva dell’organizzazione sindacale, riducendolo a debole diritto individuale. Si esautora quella forza del numero che nel disegno costituzionale riequilibra il possesso dei mezzi di produzione e si ragiona nei termini di una mera prospettiva astratta e formale di stampo liberale.
    La chiusura del cerchio si ha poi con la previsione, nelle “Clausole transitorie e finali” , di una procedura arbitrale (oggi molto in voga negli accordi di libero scambio internazionali) per i casi di inadempimento, prima affidata ad un «collegio di conciliazione ed arbitrato», che valuta «eventuali comportamenti non conformi agli accordi», e, quindi, ad una «Commissione Interconfederale permanente». Al di là della palese mancanza delle caratteristiche di indipendenza e imparzialità proprie del giudice, colpisce l’attribuzione alla Commissione del potere di dotarsi di proprie regole, non solo sul suo funzionamento ma anche sui propri poteri di intervento.
    I sette componenti sono non meglio identificati «esperti in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali» nominati «pariteticamente» da Confindustria e dalle tre confederazioni sindacali più rappresentative, a parte il Presidente scelto da «una apposita lista definita di comune accordo». È abbandonata la logica costituzionale dell’eguaglianza sostanziale: la parità in presenza di diseguali condizioni non può che riprodurre la disuguaglianza, con buona pace di ogni progetto di emancipazione sociale.
    Il sindacato è sussunto nella logica aziendale, il lavoratore è solo col suo diritto di sciopero individuale, il conflitto non esiste, per il dissenso ci sono i “tribunali speciali”.
    Per la riabilitazione di Fausto e cacciata dei mercanti dal tempio oggi e sempre Reply
  3. Anonimo · Edit La tripartizione dei poteri è uno dei principi fondamentali delle democrazie. In modo molto elementare, si può dire che nello Stato c’è un organismo che approva le leggi (potere legislativo), c’è un organismo che attua le leggi stesse (potere esecutivo) ed infine un organismo che giudica e che quindi assicura il cittadino del rispetto della legge. Montesquieu grande filosofo e pensatore liberale fu uno degli ideatori di questa tripartizione, che dovrebbe servire a garantire che nessuno possa essere “Princeps legibus solutus”. I potenti, in particolare, anzi soprattutto loro, non possono esimersi dal rispetto delle regole costituzionali e legislative. E in questo modo anche al “povero e debole cittadino” è garantito di poter vivere in una società equa e giusta.
    Al lordo di violazioni di questi principi, sempre possibili data la natura umana, ad essi si dovrebbe riferire anche un’associazione non riconosciuta come il sindacato e la CISL (perfino una bocciofila, come simpaticamente si dice nell’articolo che commento). A questo proposito, devo riferire che, di recente, un segretario regionale di categoria (non dico quale, ma è molto potente, la categoria, non lui….) mi disse: noi rispettiamo le regole, non siamo mica una bocciofila !! Tutto ciò a sostegno del suo intervento discrezionale che negava la validità di un congresso !!!
    Tutto ciò deve valere per il nostro sindacato anche in considerazione di quanto dichiarato nelle premessa dello Statuto confederale, perché uno degli obiettivi è quello di “associare tutte le categorie di lavoratori in sindacati democratici.” La democrazia è un valore fondante per noi della CISL.
    Dunque la costituzione per un sindacato come il nostro, è o dovrebbe essere lo Statuto e l’organismo competente è il Congresso, le leggi sono i regolamenti e l’organismo competente sono i Consigli generali, il potere esecutivo sono le segreterie e gli esecutivi, rimane poi il potere giudiziario che nella CISL è rappresentato dai collegi dei Probiviri.
    Naturalmente c’è un particolare: i collegi dei probiviri sono nominati, di fatto, dalle segreterie che indicano i nomi al congresso e quindi, a parte qualche lodevole eccezione e a prescindere da curriculum di tutto rispetto, non sono e non possono essere certamente autonomi da chi li ha nominati.
    E sono tanto meno autonomi, perché, dopo un mandato di quattro anni, possono essere riconfermati: ergo, se si sono comportati bene, la segreteria potrà farli rieleggere, se si sono comportati male……. Si sa bene cosa succederà.
    Sappiamo tutti, sia pure empiricamente quello che avviene nei collegi dei Probiviri di categoria e confederali. In realtà, secondo le norme dello Statuto CISL, ogni anno ci dovrebbe essere una sessione delle strutture della CISL nella quale presentare e discutere le sentenze, i lodi, le decisioni dei Collegi. E, arguisco, anche renderle pubbliche, per confermare o smentire quella che è l’opinione comune che molti di noi si sono fatti e che, cioè, i Collegi siano la “longa manus” del Potere, anziché essere i garanti del rispetto degli statuti e dei regolamenti.
    Tutto ciò è tanto più importante, perché gli statuti ed i regolamenti, di recente approvati, sembrano incentivare il ricorso ai probiviri anche da parte dei singoli iscritti. Basta pensare all’articolo 16 dello Statuto CISL (norma relativamente recente, ma non so quanto usata ed applicata)” “Quando le Segreterie di categoria e/o confederali nell’ambito della specifica competenza territoriale siano a conoscenza di violazioni statutarie, hanno l’obbligo di intervenire per far cessare tali violazioni e, qualora tale intervento sia inefficace, hanno l’obbligo di denunciare tali comportamenti al Collegio dei probiviri. L’omissione di intervento e di denuncia può essere a sua volta oggetto di ricorso ai probiviri competenti.”
    Oppure ancora lo stesso Codice etico, tanto pubblicizzato come fonte di moralizzazione massima all’interno del sindacato CISL e approvato il 16 dicembre 2015 (nemmeno due anni fa), recita:
    “Certezza delle regole e delle sanzioni.
    Diventa ineludibile per un’associazione di rappresentanza, come la CISL, riaffermare il “sacro principio” del rispetto delle regole e delle norme contenute nello Statuto e Regolamenti che liberamente l’organizzazione si è data. Così come il principio” di prevedere applicare sanzioni ” in caso di violazione delle regole deve diventare la norma che regola la vita associativa.”
    (ma questo principio vale solo per chi polemizza o per tutti ???) Ed ancora….. al punto 5
    ATTUAZIONE E CONTROLLO
    Spetta al Collegio dei Probiviri confederale, in stretto raccordo con i Collegi delle Federazioni nazionali e delle Unioni Sindacali Regionali: a) il compito di acquisire la raccolta delle segnalazioni su presunte violazioni del Codice Etico; b) una verifica annuale del codice etico; c) segnalare alle strutture interessate le comunicazioni pervenute sulle presunte violazioni del Codice Etico; d) avviare istruttorie ricognitive per approfondire eventuali segnalazioni su gravi irregolarità e violazioni del Codice Etico raccolta segnalazioni e informazione.
    Tutte le strutture CISL, i/le dirigenti, gli/le operatori/trici, gli/le attivisti/e e gli/le associati/e possono segnalare presunte violazioni del Codice etico o anche suggerimenti e proposte di modifica e ampliamento del Codice. Tutti gli iscritti, a seguire pedissequamente tale dettato, sono quasi invitati a inoltrare segnalazioni /denunce al Collegio dei Probiviri. Quasi quasi, si potrebbe pensare che nella CISL si voglia introdurre un sistema delatorio….
    Ma siamo sicuri che, se qualcuno lo facesse nei confronti dei poteri, non ci sarebbero ritorsioni ?
    Per esempio, nel codice etico c’è scritto che
    Sobrietà e gestione efficiente.
    Ricordando che gran parte delle risorse economiche e finanziarie utilizzate dall’organizzazione provengono dal contributo autonomo e volontario dei/delle lavoratori/trici e pensionati/e con la trattenuta sindacale mensile: La CISL si impegna ad adottare e promuovere comportamenti contrassegnati da sobrietà, nella consapevolezza che l’attuale fase sindacale e sociale richiede rigore e buona amministrazione, da rappresentare soprattutto ai/alle nostri/e associati/e;
    La CISL si impegna a usare tutte le risorse disponibili nel modo migliore, evitando in particolare qualunque forma di spreco Sulla base di questo principio, per esempio, La CISL si impegna a privilegiare per la realizzazione di eventi, convegni e incontri formativi strutture di ospitalità gestite da soggetti dell’economia sociale, laddove presenti ed adeguati alla funzione. Abbiamo visto la recente tornata congressuale, per la quale diverse strutture nazionali o locali, per la celebrazione delle loro assise congressuali, hanno invece privilegiato grandi alberghi, gestiti da multinazionali e dove il rispetto del contratto nazionale di lavoro o dello stesso sindacato, vale pochissimo…. Fermo restando il giudizio sulla giustizia interna, non sarebbe il caso che ognuno di noi, nel rilevare le mancanze ( e ce ne sono tante) riguardo al codice etico, da parte del “potere esecutivo”, non utilizzi lo strumento suggerito proprio dei Costituenti della CISL ? Proprio per fare emergere la contraddizioni….
    Si vedrebbe così quanto venga rispettato lo spirito della nostra costituzione o se invece si tratta di una semplice facciata….
    D’altronde, (come già detto sopra), la parte dello Statuto dedicata alle norme di comportamento nei procedimenti dinanzi ai collegi dei Probiviri precisa che:
    Le decisioni dei Collegi saranno oggetto di riflessione e approfondimento nel corso della giornata di studio annuale che il Collegio confederale dedica, con la partecipazione dei collegi periferici e alla presenza della Segreteria confederale, dei Segretari generali delle Federazioni nazionali e
    delle USR.
    L’obiettivo di tale incontro sarà, altresì, un momento collegiale per un esame delle tendenze interpretative emerse nella giurisprudenza stessa e alla ricerca di indirizzi che assicurino omogeneità e certezza alla stessa. Ai fini di quanto previsto dal primo comma, i Collegi dei
    probiviri delle Federazioni nazionali di categoria e delle Unioni sindacali regionali trasmettono i loro lodi decisori definitivi al Collegio confederale dei probiviri.” E’ evidente che se la CISL vuole realmente essere una casa di vetro, dovrà pubblicare le casistiche, almeno in termini oggettivi, indicando le motivazioni dei ricorsi, la qualifica dei ricorrenti e quanto altro sia necessario per una conoscenza del fenomeno. Reply
  4. Tacito · Edit Forza ragazzi diamoci dentro! Per la nostra storia, per il nostro futuro!
    W la Cisl libera e forte! Reply
  5. Anonimo · Edit MOLTI PENSANO CHE I SINDACATI SONO FINANZIATI SOLO DAGLI ISCRITTI
    Invece nei bilanci (che per quanto riguarda le categorie o i comitati regionali non sono consultabili) si possono scoprire invece altre voci, diverse da quelle relative alle tessere degli iscritti. Voci complicate, poco conosciute, come le “quote di assistenza contrattuale” o i “gettoni di presenza” presso Enti bilaterali o altri istituti analoghi.
    L’esempio di Salvatore Cannavò riportato sul “Fatto Quotidiano” del 18 gennaio 2014 e riferito al bilancio della Filcams della CGIL anno 2010 ci dice che le entrate per gli iscritti ammontavano a 1,7 milioni di euro e quelle per le quote di assistenza contrattuale 2,15 milioni e 685mila euro provenivano da “gettoni di presenza”. Perciò solo il 37% provenivano dalle tessere degli iscritti (molto meno della metà).
    Ma cosa sono le “quote di assistenza contrattuale”?
    Rappresenta una quota straordinaria che i sindacati e i datori di lavoro prelevano dalle buste paga dei lavoratori per aver concluso il contratto. Un premio per il lavoro fatto Al 18 /01/2014 La cifra era presente in molti degli oltre 400 contratti stipulati dai sindacati nazionali (l’elenco completo è consultabile sul sito del Cnel)
    Ovviamente al banchetto partecipano anche le parti datoriali
    Quella quota, poi, spesso è mescolata all’altra contribuzione poco nota, quella relativa agli Enti bilaterali. Questi organismi, governati alla pari da sindacati e imprese, sono stati istituiti nel 2003 dalla legge 30 e vengono regolamentati dai contratti nazionali e/o territoriali. Servono a offrire prestazioni e servizi ai lavoratori sul piano della formazione professionale o del sostegno al reddito. Solo nel settore del Commercio e dei Servizi, la Filcams ne ha conteggiati circa 200 tra i 20 nazionali e i 194 provinciali e regionali. Ma ormai sono presenti in ogni categoria contrattuale e, come spiega il segretario generale del ministero del Lavoro, Paolo Pennesi, “svolgono un ruolo di supporto all’attività pubblicistica” ma sono comunque regolati dal diritto privato. Quindi, di fatto, non sono soggetti a particolari controlli “se non quelli relativi alla loro affidabilità basata sul fatto di essere emanazione di sindacati rappresentativi”.
    Uno studio della Filcams del 2011, relativo al proprio comparto, notava che le risorse “a favore dei lavoratori e delle imprese non superano quasi mai il 50 per cento dei contributi incassati dai singoli enti” oppure che, per quanto riguarda i compensi, si possono “raggiungere indennità elevatissime fino a 70 mila euro annui per una presidenza”.
    Un particolare Ente bilaterale, come l’Enasarco che gestisce il fondo pensioni per gli Agenti di commercio, spende ogni anno, per retribuire i suoi 18 amministratori (Cda e Collegio sindacale) 1,3 milioni di euro, oltre 72 mila euro a testa. Ma il presidente, Brunetto Boco, percepisce molto di più. E Boco è anche il segretario generale della UilTucs, il sindacato del Commercio, Turismo e Servizi. Lo stesso dottor Pennesi ricorda che il ministero del Lavoro ha già chiarito “che gli accordi in materia di bilateralità impegnano soltanto le parti aderenti”. In questo spirito, dunque, fa notare, anche le quote di assistenza contrattuale, definite alla stregua di “royalties”, dovrebbero poter essere imposte “solo a chi è iscritto” ai sindacati, dei lavoratori o delle aziende
    Il fenomeno delle entrate aggiuntive alle iscrizioni è molto più ampio, e opaco, se si considerano i contributi indiretti provenienti dal settore pubblico. La tanto decantata, e assolutamente priva di risultati, “relazione Amato sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato” indicava in 113 milioni di euro il costo dei circa 2mila distacchi sindacali; in 330 milioni il trasferimento dagli Istituti di previdenza ai Patronati nazionali; in 170 milioni le convenzioni dei Caf, i centri di assistenza fiscale che, in più, ricevono dallo Stato 14 euro per ogni singola dichiarazione dei redditi e 26 euro per quelle in forma congiunta. Formalmente questi soldi non vanno a Cgil, Cisl e Uil che però gestiscono quegli istituti con tutti i vantaggi del caso. Come si può vedere, le vie del finanziamento al sindacato .
    Per la riabilitazione di Fausto e la liberazione della Cisl Reply

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