Un’analisi sulla globalizzazione da Savona

Luigi Viggiano, uno dei nostri lettori e collaboratori più assidui, ci manda una riflessione sulla ripartizione della ricchezza su scala globale, un tema che interessa ai sindacati di tutto il mondo.

Ed è quindi significativo che nella CIsl di oggi interessi così poco…

www.il9marzo.it

 

IL DOMINUS DELLA GLOBALIZZAZIONE HA IL VOLTO DELLE MULTINAZIONALI

Solo cinquecento grandi società transcontinentali controllano oggi il 52% del prodotto interno lordo del pianeta dando lavoro all’1,8% della manodopera mondiale. Però controllano ricchezze superiori a tutti i beni dei centotrentatré paesi più poveri del mondo messi insieme”. Il 58% delle suddette multinazionali sono statunitensi.
Nella recente fase storica, i ceti dominanti sono riusciti a togliere: redditi, servizi, protezioni sociali e rappresentanza politica/sindacale alle fasce deboli della società annacquando qualsiasi sollevazione sociale grazie all’avvio di un circolo vizioso col quale, al crescere della crisi cresce la disoccupazione e la povertà che a loro volta consolidano ed incrementano la crisi fino a toccare livelli storici mai registrati finora.

Oggi le disuguaglianze sociali sono un problema globale, così come lo è la crescita del potere dei super-ricchi che sono diventati la componente più globale di tutte, in particolare per le modalità con cui accumulano le loro fortune. Secondo Jean Ziegler, la globalizzazione è l’insieme degli strumenti e dei modi con cui le multinazionali realizzano su scala mondiale il loro potere perseguendo “una rifeudalizzazione del mondo”. Trasformazione voluta e  sostenuta dall’alleanza tra l’oligarchie di economia-finanza e politica, dei settori privato e pubblico, di portata nazionale e internazionale; che come scrive Stiglitz collaborano nell’attuare politiche “che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri ”.
Si può dunque dire che nell’era della globalizzazione le multinazionali sono i “nuovi despoti” che “dispongono di mezzi finanziari praticamente ”illimitati” e gli Stati Uniti, dove si trovano il 58 % delle cinquecento multinazionali, commerciali, finanziarie e di servizi più importanti del mondo, sono il cuore della globalizzazione.
Questa concentrazione di potere si è avuta dal dopoguerra in avanti; un esempio in tal senso è dato dalla proprietà dei 4/5 dei quotidiani statunitensi che erano indipendenti negli anni 40 ma alla fine degli anni Ottanta, la stessa percentuale di proprietà era nelle mani di grandi gruppi economici, spesso di conglomerate con interessi in settori dell’economia molto lontani tra loro.  Solo qualche anno fa, il giornalista William Greider esemplificava alcune delle implicazioni di un tale stato di cose scrivendo: “Quando la NBC trasmette un programma sul successo della politica del nucleare in Francia, sta informando il pubblico o vendendo un prodotto della GE, il proprietario della NBC?”. Con la domanda introduceva una considerazione di enorme rilievo e cioè che: “A mano a mano che il controllo dei maggiori media giornalistici si concentra in un numero sempre minore di mani la loro ipotetica neutralità diventa sempre più sospetta, sia in fatto di commercio, che di politica”.
Una volta era possibile dare conto delle società dominanti in ciascun settore: quotidiani, periodici, radio, televisione, libri e cinema. Ma con il passare degli anni il numero delle società dominanti è diminuito in ciascun settore: da 50 multinazionali nel 1984 a 26 nel 1987, poi a 23 nel 1990 e infine, man mano che i confini tra i diversi media venivano cancellati, meno di 20 nel 1993”. Nel 1996, il numero era ridotto a dieci e all’inizio del decennio successivo si era quasi dimezzato; il 90% del mercato è nelle mani di CBS, Disney, General Electric, News Corporation, Time Warner e Viacom, che hanno certamente ampliato l’offerta di prodotti per il pubblico ma l’hanno altrettanto appiattita culturalmente o “omogeneizzata”, come sostengono altri.
Gara La Marche in un discorso all’Università di California a Irvine diceva che negli USA: “Più del 90 per cento delle vendite nazionali di musica fanno capo a sei società. Quattro grandi società di produzione possiedono metà dell’industria cinematografica. Gli editori librari sono 2500, ma sono cinque ad avere la maggior parte degli introiti. Barnes & Noble e Borders controllano quasi metà del mercato delle vendite, con i librai indipendenti, ridotti a poco più del 15%.
Le conseguenze di una tale evoluzione sono sia l’omogeneizzazione dell’informazione, che la riconducibilità della produzione di informazione, intrattenimento e cultura alle logiche di grandi conglomerate, sia la contiguità di interessi e strategie tra i mondi della politica, dell’economia-finanza, della cultura. Ne si può sottovalutare le potenzialità di internet e la televisione che rimane il mezzo di informazione di massa più diffuso e influente sui processi di creazione di un senso comune nazionale. “Se si controlla la comunicazione, si controlla”, sosteneva anni fa il giornalista di “Fortune” William H. Whyte.
La fase di crescita della polarizzazione sociale nasce con l’offensiva antioperaia e antisindacale lanciata da Ronald Reagan e Margaret Thacher, accaniti sostenitori della deregulation. Le conseguenze che riscontriamo sono: le trasformazioni strutturali, la deindustrializzazione unita alle delocalizzazioni e ristrutturazioni tecnologiche delle aziende, e soprattutto la finanziarizzazione dell’economia.
Oggi, con la recessione in atto si hanno quote crescenti di popolazione che: si impoveriscono e s’indebitano, l’occupazione è in caduta libera come pure i redditi e le condizioni di vita; ma anche i fortunati che un posto di lavoro l’anno mantenuto o trovato non gioiscono più di tanto perché il salario si è ridotto al punto di non riuscire più a vivere; dunque l’occupazione non allontana più la povertà.
Gli addetti ai lavori o maggiormente informati danno per scontato che viviamo in una fase di crescenti disuguaglianze, ma “la gente comune non è cosciente di quanto grande queste siano” nella distribuzione della ricchezza, e che solo grazie all’eredità degli “anni buoni” del secondo dopoguerra si é potuto resistere alla gravi perdite che la crisi ha comportato come: l’eliminazione di posti di lavoro, licenziamenti, riduzioni salariali, precarizzazione sociale, tagli ai servizi, all’assistenza e alla previdenza ecc.; perché è grazie a queste conquiste sociali del dopo guerra che si sono attenuati gli effetti della crisi ed evitato una catastrofe repentina e di massa come era accaduto negli anni trenta. Questa volta è stata una progressione che, per quanto rovinosa di fatto, ha potuto essere mascherata a lungo, o addirittura negata in quanto fenomeno nazionale, o presentata come conseguenza temporanea di problemi economici congiunturali, oppure ancora come inevitabile conseguenza del progresso tecnologico, o effetto indotto da concorrenza estera. Tutto ciò, unito alla complicità dell’informazione, ha depotenziato la protesta.

Di seguito, ritenendolo utile al discorso, riporto un estratto dell’informativa riservata che nel 2005, la conglomerata finanziaria Citigroup inviò ai propri clienti più ricchi, dove diceva che “il mondo si divide in due blocchi: le plutonomie, in cui la crescita economica  é largamente goduta da pochi ricchi, e il resto”. Il “resto” é costituito dalle popolazioni che non contano nulla o quasi, come al tempo delle precedenti plutonomie e citava come esempi: la Spagna del Cinquecento, l’Olanda del Seicento, la Gilded Age del secondo Ottocento ecc.

Per gli analisti le forze motrici delle plutonomie erano: “Innalzamenti della produttività grazie a tecnologie che sovvertono [gli esistenti rapporti sociali di produzione, NdA], innovazioni finanziarie creative, governi amici e collaborativi, un quadro internazionale di immigranti [che lavorino a bassi salari e senza diritti, NdA] e di conquiste oltremare che diano vigore alla creazione di ricchezza, la certezza del diritto [a protezione degli investimenti, NdA] e la produzione di brevetti.
Nel giro di pochi anni la sicumera “plutonomica” di Citigroup fu ridimensionata dalla più grave recessione del secondo dopoguerra: una crisi finanziaria e una recessione la cui responsabilità principale  é d’attribuire proprio alle spregiudicate strategie speculative delle grandi organizzazioni finanziarie e alle istituzioni politiche che nel decennio precedente il 2008 avevano spinto la deregolamentazione del mondo finanziario oltre ogni limiti di tollerabilità economica e sociale.
In parole povere una versione ancora più estrema del neoliberismo, secondo cui “i ricchi non hanno più bisogno degli altri”. E’ da qui che la plutocrazia (i ricchi governano) si trasforma in plutonomia (i ricchi fanno le leggi a proprio favore).
Nell’autunno 2011, il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman scriveva che mediamente all’80% della popolazione di un paese capitalista va meno della metà del reddito totale, e tutta la “redistribuzione verso l’alto del reddito sottratto dall’80% va all’uno per cento che sta al vertice della scala dei redditi”. Così coloro che hanno continuato ad arricchirsi, anche nella crisi, hanno contemporaneamente cercato di imporre alla politica scelte antipopolari di “austerità” e le disuguaglianze sociali si sono accentuate ed estese al punto che nei ranghi degli emarginati sono  finite percentuali sempre più alte di uomini e donne e la “società dei due terzi” di cui si parlava negli anni del neoliberismo, in cui il terzo inferiore della piramide sociale veniva abbandonato al suo destino dalla politica e dall’economia.
Le disuguaglianze economiche sono dunque cresciute nell’ultimo trentennio, vale a dire dall’era Reagan-Thacher in poi.  Scrive Martin Gilens nelle pagine conclusive di un suo libro che, in parallelo con tale evoluzione le “preferenze e gli interessi” dei poveri e della classe media sono stati sempre più scarsamente considerati nelle scelte dei governi e questo ha fatto si che “il potere del popolo” fosse sostituito dal “potere di pochi” e la liretta italiana sovrana e democratica è diventata euro europeo  favorendo una economia non democratica; considerato che il 75 % delle leggi sono imposte da commissari europei non eletti (il parlamento europeo non legifera e quello nazionale può solo ubbidire). Questo perché é arcinoto che la disuguaglianza ha sempre inevitabilmente distorto la democrazia a vantaggio dei pochi che possono permettersi lobbisti costosi e contributi elettorali illimitati.
A questo punto l’amara conclusione è che una simile politica è diventata un sistema di potere utilizzato per il dominio dell’Europa e del Mondo sostituendo le guerre tradizionali con quelle economiche. Per essere più chiari rispetto al titolo di questo scritto penso che, se con Napoleone e l’illuminismo si confinarono le aristocrazie, e il clero con il neo-conservatorismo, avviato dalla Tacher e Reagan continuato con la dinastia Bush e a seguire fino ad Obama si sta compiendo (sotto mentite spoglie) il piano di rinascita delle classi dominanti ante rivoluzione francese, azzerando tutte le conquiste sociali da essa prodotto e ripristinando una divisione dell’umanità in una parte molto ristretta straricca e rigorosamente anonima molto coesa e tutto il resto condannata a vivere alle soglie della povertà super sfruttati e senza alcun diritto. Ovviamente nessuno mai riconoscerà questa analisi ma non pretendo di essere depositario di nessuna verità invito, chi minimamente interessato, a riflettere sulla questione con mente libera si accorgerà che la disgregazione della società e di qualunque istituto sociale che crea unità non avviene per caso bensì per portare a compimento una restaurazione sociale programmata e perseguita utilizzando: strumenti, tecniche, conoscenze, mezzi e metodi molto moderni e raffinati invece che la guerra tradizionale con cui fu sconfitto Napoleone ma non le idee che aveva seminato.
Oggi l’unica cosa che potrebbe risollevarci dallo stato di crisi é quella di generare una crescita occupazionale e sociale e non l’ottemperanza di trattati e regolamenti europei che ci dissanguano ancora di più. La maggior parte degli economisti e sostenitori dell’euro si comportano come i cerusichi del medioevo che per qualunque malattia procedevano con salassi, uccidendo così i loro malcapitati ammalati per dissanguamento; se ad ogni crisi si risponde con un salasso di tasse come si può sperare nella ripresa?. Tra l’altro come accennato in precedenza una moneta unica come l’euro con cambio non ugua per tutti gli Stati come avviene per il dollaro, oltre ai seri e dannosissimi pericoli per l’economia che stiamo conoscendo da anni ne comportanta altrettanti se non di più per il nostro sistema democratico. Perché come scrive Gabriele Sannino in un suo libro “l’euro é una moneta non del popolo che é stato privato della sua sovranità ma di una èlite capitalista globale che crea queste banconote dal nulla e ce le addebbita chiedendoci in cambio pezzi delle nostre vite”. Un sindacato che facesse veramente il suo mestiere altro che ambire alle briciole del potere si batterebbe per l’uscita, al più presto da questa comicia di forza che sta strangolando l’Italia e gli Italiani.
La prima cosa da fare é prendere atto che come ha detto Papa Francesco quella che stiamo vivendo “non é un’epoca di cambiamenti ma un cambio d’epoca” nel senso che la inarrestabile ultima crisi ha cambiato il mondo per sempre precipitandolo in una perenne instabilità fatta di oscillazioni che vanno da paure di crisi imminenti a  crescite stentate e  ristrette nel tempo.

L u i g i         V i g g i a n o
F N P        S A V O N A

Condividi il Post

Commenti