La notizia della rottura delle trattative per il rinnovo del contratto per i lavoratori dell’industria alimentare non è di quelle che fa piacere rilanciare: cerchiamo allora di capire meglio il perché, leggendo i comunicati delle parti coinvolte. E, per questa volta, cominciamo dalla controparte.
Il comunicato “dei padroni” (anche noi alziamo il livello della conflittualità, non potendo fare altro, usando il linguaggio dei tempi andati) accusa la parte sindacale di seguire “vecchie logiche e liturgie ormai superate”. Ma, fin qui, è la solita vecchia logica, la liturgia che andrebbe finalmente superata, di dare tutta la colpa alla controparte.
Nel merito, par di capire, le obiezioni dei “padroni” sono due: dai sindacati sono state avanzate rivendicazioni di aumenti salariali indifferenziati, sganciati dalla produttività, e la “ulteriore, rinnovata, richiesta di deroga al Jobs act”, che per i padroni è “l’unico vero strumento di cambiamento delle regole di questo paese a cui l”industria alimentare italiana non rinuncerà mai”.
Quindi, una questione vecchia, gli aumenti salariali, ed una nuovissima, il Jobs act (la cui emanazione, par di capire, sta interferendo pesantemente in un importante rinnovo contrattuale. Il che è un indizio per non considerarlo un capolavoro).
Fra i sindacati, a parlare a nome di tutti è la Flai-Cgil. Nel senso che non espone la propria posizione, ma quella di tutti e tre (per cui gli altri due potrebbero anche star zitti…).
A parte questo aspetto, il comunicato della Flai è, obiettivamente, il migliore, perché è il più ricco di informazioni. La rottura arriva perché i tre sindacati hanno giudicato “insoddisfacenti” le risposte sul salario e “inaccettabile” un accordo basato “esclusivamente sulla penalizzazione complessiva delle retribuzioni a partire dal blocco degli scatti di anzianità e dall’eliminazione dei premi di produzione congelati”. Per questo, è stato proclamato lo stato di agitazione, con blocco di straordinari e flessibilità, sono state convocate assemblee in tutti i luoghi di lavoro, ed è stato deciso un pacchetto di 4 ore di sciopero articolato a livello aziendale da effettuarsi entro il 22 gennaio e 8 ore di sciopero nazionale il 29 gennaio.
Quanto alla Uila, si sottolinea l’aspetto salariale, giudicando “insopportabile” la pretesa di un rinnovo a costo zero mentre i padroni diffondono “dati positivi sull’andamento del settore: i successi di Expo 2015, la crescita annua del fatturato del 4% negli anni 2007-2013, l’incremento dell’84% dell’export negli ultimi 10 anni”.
E il dottor Sbarra dell’Anas, cosa dice? Quello che può dire uno che guadagna il suo stipendio come esperto di strade e di grandi opere (non necessariamente compiute) ed ignora le questioni del settore. Ma niente paura, c’è sempre pronto il sacchetto delle “parole della Cisl” da tirar fuori e metterle una dietro all’altra, senza curarsi troppo del significato e della coerenza fra quel che si dice e quel che si fa.
Per questo, di tutti e quattro, il suo comunicato è, al tempo stesso, il più lungo e quello che dice di meno. Se vi interessa leggetelo, ma vi avvertiamo che non ci troverete un solo elemento di fatto.
Quindi, par di capire, da una parte ci sono i “padroni” con le loro posizioni non negoziabili (almeno per ora), dall’altra la Flai che parla a nome di tutti. Con la Uila che aggiunge qualcosa di suo. E la Fai in terza fila anche in questo. Una situazione che sembra essere la prova generale di quello che potrebbe accadere con l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione che i traditori di Via Po 21 sembrano aver ormai accettato.
Certo, c’è l’attenuante che la Fai è commissariata e non vive il momento più alto della sua storia. Speriamo solo che questo momento finisca col congresso di aprile; sarebbe interesse di chi crede ancora nella Cisl avere qualcuno capace di alzare la voce contro l’attuazione dell’articolo 39.
Anche perché, frugando nel sacchetto del dottor Sbarra dell’Anas con le parole della Cisl, dovrebbere venir fuori non solo “partecipazione” “welfare” “bilateralità”, ma anche “libertà sindacale” e “no all’applicazione dell’articolo 39” che risalgono ai tempi di Giulio Pastore.
Ma si vede che queste parole, che non portano soldi né potere (a differenza di “partecipazione” “welfare” e “bilateralità”), sono state tolte dal sacchetto e buttate via.
Allora sta a chi ci crede ancora di raccoglierle e riportarle in alto.