Luigi Viggiano ci spiega il modello tedesco (con l’aiuto di tre articoli)

Luigi Viggiano, della Fnp di Savona, è ormai un collaboratore abituale del nostro sito. Il suo ultimo contributo presenta alcune considerazioni sul famoso “modello tedesco” di relazioni industriali, citato più spesso a sproposito che a ragione in Italia, spesso a sostegno di tesi opposte, magari egualmente lontane dalla realtà tedesca.

Questa volta, oltre alle sue considerazioni, ci manda un po’ di interessante documentazione. cosa di cui lo ringraziamo, per illustrare meglio come anche nella Cisl la Germania sia citata in maniera poco documentata su come stanno realmente le cose.

www.il9marzo.it

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Grazie alla cogestione la Germania è uno dei paesi con minori tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori. Questo é il giudizio ricorrente tra gli addetti ai lavori sulle relazioni sindacali tedesche; alle quali spesso dichiarano d’ispirarsi, i nostri segretari confederali.

Peccato però che, nel rispetto della peggiore tradizione renziana, alle parole non seguono mai i fatti e quando ci sono non rispecchiano minimamente la realtà tedesca. Ma questo per loro è secondario, d’altra parte, quante volte (anche di recente) la segretaria Furlan, a parole ha condiviso il pensiero del Papa, del Presidente della Repubblica ecc. ma poi ha fatto il contrario?  .

A questo piccolo lavoro sono stato sollecitato, dall’intervista della segretaria Furlan rilasciata al Corriere della sera del 18 gennaio u.s. nella quale ancora una volta richiamava come modello delle relazioni sindacali a cui ispirarsi quello tedesco. In premessa devo dire però che di richiami simili ne ho letti e sentiti, in particolare negli ultimi anni, a iosa peccato però che puntualmente sono rimasti lettera morta.

Per non rischiare di dire cose inesatte ho fatto (come é mia abitudine) una piccola ricerca con l’intendo di far conoscere ha chi fosse interessato i due sistemi di relazioni sindacali per poterli confrontare con cognizione di causa; di materiale ne circola tanto sull’argomento però, per un primo quadro d’insieme, penso che i tre lavori che seguono possano essere sufficienti :

Il modello tedesco. Come funziona davvero di Enrico Grazzini da Micromega on line
Modello partecipativo tedesco spiegato da Seyboth di Fabio Ghellli
Italia e Germania, esperienze sindacali a confronto newsletter di nuovi lavori di Giuseppe Bianchi

Luigi Viggiano – Fnp Savona

 

Il modello tedesco. Come funziona davvero

Pubblicato da Keynesblog il 6 aprile 2012 in Economia, Europa, Lavoro
Di Enrico Grazzini da MicroMega on line

Uno degli elementi fondativi di questo modello è la codeterminazione: infatti in Germania i rappresentanti dei lavoratori, eletti da tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato partecipano al board delle grandi e medie imprese, in posizione (quasi) paritaria con gli azionisti, gli shareholders. Due studi che dimostrano i vantaggi strategici – per i lavoratori, per le stesse aziende e per l’economia nel suo complesso – di questo modello. Il pericolo costituito dalle corporations sia per la democrazia che per una vera competizione di mercato; antidoto all’involuzione post-democratica.
Per uscire in maniera equa e duratura dalla crisi, é innanzitutto indispensabile cominciare a introdurre forme di democrazia nelle aziende. Altrimenti rischiano altre soluzioni, basate sempre e solo sulla lotta sindacale più o meno antagonista fondata sulla sopravvalutazione della possibilità che politiche industriali illuminate, keynesiane, verdi e di sinistra, possano modificare dall’alto la realtà delle imprese e dell’economia, senza partecipazione dei lavoratori nelle aziende.
Il nostro assunto di partenza è invece che la democrazia dal basso sia essenziale non solo in politica ma soprattutto nell’economia: senza un potere reale, anche se necessariamente parziale, dei lavoratori sulle strategie delle imprese sarà difficile difendere l’occupazione e modificare l’economia, e quindi anche la politica e la società. Di più: senza che gli utenti e i lavoratori partecipino direttamente negli organi direttivi degli enti di servizio pubblico è impossibile che gli interessi del pubblico stesso siano effettivamente rappresentati.
Pochi sanno che la Mitbestimmung è stata introdotta in Germania nel 1951 grazie a un referendum indetto dal potente sindacato DGB da cui risultò che oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario era disposto a scioperare per ottenere i diritti di cogestione. Il cattolico Konrad Adenauer fu quindi costretto ad accettare la Mitbestimmung, che pure la confindustria tedesca ha fin dall’inizio, e poi sempre, duramente avversato, fino a chiedere (ma inutilmente) alla Corte Costituzionale tedesca di abrogarlo in quanto contrario al diritto costituzionale della proprietà privata. Nel 1951 iniziava così la politica di codecisione (quasi) paritaria, che nel 1976 è stata estesa dal governo socialdemocratico di Willy Brandt alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti (sotto i 2000 i lavoratori possono eleggere un terzo dei rappresentanti nei consigli di sorveglianza). Così in Germania per legge dello stato il lavoro come tale (cioè senza che i lavoratori siano obbligati a partecipare al capitale e agli utili aziendali) è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato.
50 anni dopo la fatidica data del 1951, in Italia, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne – alfiere del capitalismo anglosassone per cui le imprese devono soddisfare solo gli interessi e gli appetiti degli shareholder, senza curarsi delle ricadute sociali e ambientali delle attività aziendali – indiceva (e riusciva a vincere) un altro referendum a Mirafiori. I dipendenti sono stati posti di fronti all’alternativa se continuare (forse) a lavorare senza diritti e senza rappresentanze sindacali scelte da loro stessi, o se invece rimanere disoccupati perché le produzioni venivano spostate all’estero. A (stretta) maggioranza i lavoratori italiani – purtroppo senza alcuna voce e rappresentanza negli organi direttivi della Fiat – hanno dovuto chinare il capo e accettare di continuare a lavorare senza diritti. Il modello tedesco di co-determinazione (Mitbestimmung) ci sembra importante soprattutto alla luce dell’attuale debolezza dell’azione sindacale che, per quanto sacrosanta e indispensabile, risulta purtroppo assai poco efficace e incisiva nelle fasi di crisi dell’economia – e quando le multinazionali come la Fiat possono spostare le loro unità produttive (e anche la sede!!) dove e come vogliono. Comunque, Italia a parte, la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese si è diffusa anche fuori dalla Germania, e cioè in 12 paesi dell’Unione Europea, come vedremo.
Si discute molto su quali siano gli effetti della Mitbestimmung sulle attività delle imprese e sull’economia in generale. Noi esporremo qui molto sinteticamente i risultati di due interessanti ricerche. La prima è intitolata “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards” ed è stata condotta sulle aziende tedesche quotate in borsa [3]. La seconda è uno studio comparativo dell’ETUI, European Trade Union Institute, sulle performance dei diversi paesi europei con o senza democrazia industriale.
La prima ricerca indica chiaramente che le aziende cogestite non solo non soffrono a causa della gestione congiunta e del potere duale, ma che anzi guadagnano in competitività rispetto a quelle governate secondo il modello proprietario e gerarchico tradizionale. La condizione del successo è però che non siano (solo) i sindacati a decidere chi siederà nel board aziendali ma i lavoratori stessi.
“La rappresentanza dei lavoratori nel board delle imprese apporta competenze molto preziose nel processo decisionale delle aziende, e fornisce un potente strumento per monitorare le decisioni degli azionisti e il comportamento del management. Inoltre maggiore è il bisogno di coordinamento aziendale, maggiore è anche l’efficacia della rappresentanza del lavoro. Però questi vantaggi non si verificano quando la rappresentanza è nominata dai sindacati (e non eletta dai lavoratori)”. Lo studio comparativo dell’ETUI analizza invece le performance dei paesi che hanno adottato forme avanzate di cogestione rispetto ai paesi più arretrati. I 27 Paesi UE sono divisi in due gruppi: il primo include 12 paesi che garantiscono diritti “forti” di partecipazione (in termini di diritti all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione) – Austria, Czech Republic, Denmark, Finland, France, Germany, Luxembourg, the Netherlands, Slovakia, Slovenia, Spain e Sweden -; e l’altro gruppo di 15 paesi che invece concede scarsi o nulli diritti di rappresentanza – Belgium, Bulgaria, Cyprus, Estonia, Greece, Hungary, Ireland, Italy, Latvia, Lithuania, Malta, Poland, Portugal, Romania e United Kingdom.
Ognuno dei due gruppi conta per circa la metà del PIL della UE. Hanno quindi uguale importanza in termini economici. I due gruppi sono stati confrontati sugli otto indicatori utilizzati da Eurostat per misurare il progresso in confronto ai cinque principali obiettivi Europa 2020, che sono:
percentuale del 75% di occupati sulla popolazione dai 20 ai 64 anni
spese per ricerche sviluppo pari a 3% del Pil
raggiungimento dei traguardi europei 20-20-20 (20% di tagli alle emissioni di gas inquinanti; 20% di energie rinnovabili sul totale e 20% di riduzione dei consumi di energia)
la percentuale di uscita dalla scuola primaria sotto al 10% e almeno il 40% della popolazione dai 30 ai 34 anni con una laurea
almeno 20 milioni di persone fuori dal rischio di povertà e di esclusione

I risultati sono evidenti ed espliciti: rispetto a tutti i cinque gli indicatori del programma Europa 2020 senza alcuna eccezione i paesi che hanno adottato legislazioni più favorevoli alla cogestione sono molto più performanti degli altri. Questo significa che se si vogliono raggiungere gli obiettivi del programma europeo occorre incentivare la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese.
Risultati analoghi sono stati rilevati in uno studio precedente (dati 2006) che metteva a confronto i due gruppi di paesi rispetto agli obiettivi fissati dal trattato di Lisbona.
Correlation does not imply causation. Ma questi studi dimostrano in modo inequivocabile almeno due cose:
la cogestione certamente non danneggia le aziende e l’economia, come invece vorrebbero i neoliberisti accecati dall’ideologia antisindacale e antisocialista e a favore del potere monocratico di azionisti e manager;
la cogestione può dare un contributo essenziale all’occupazione e allo sviluppo economico sostenibile delle economie più avanzate.
In Germania, nei paesi scandinavi e del nord Europa si è affermato un modello di condivisione per la gestione strategica delle imprese grazie al quale i lavoratori e i sindacati da una parte collaborano per lo sviluppo dell’impresa, e dall’altra esercitano però una forma effettiva di controllo e di contro-potere verso gli azionisti e i top manager. I lavoratori e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà: tuttavia possono affermare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione: e il loro diritto di veto – per esempio nel caso importantissimo delle localizzazioni all’estero, delle chiusure di impianti, delle fusioni e delle acquisizioni aziendali – è sostanziale e non puramente nominale. La cogestione non comporta però la fine dei conflitti e la subordinazione sindacale, anzi: il conflitto sindacale è regolamentato ma è un diritto riconosciuto e ampiamente esercitato.
Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario, come invece avviene nel sistema anglosassone dominante in Europa. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minor tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. La confindustria tedesca tenta costantemente di restringere la co-determinazione, affermando che frena la competizione: ma anche grazie all’introduzione della Mitbestimmung la Germania è diventata la principale potenza manifatturiera – e quindi finanziaria e politica – in Europa.

Per questi motivi anche in Italia ci sembra indispensabile cominciare a discutere non solo del “modello tedesco” di articolo 18… ma anche dei meriti della Mitbestimmung e della crisi del modello anglosassone di corporate governance.
La Mitbestimmung offre dei vantaggi che ci sembrano ampiamente dimostrati; ovviamente è però anche criticabile e – come tutte le cose – non è certamente priva di rischi. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione (quello forse meno applicato) per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”. Sul piano politico occorrerebbe considerare che la questione della democrazia economica potrebbe interessare tutta l’opinione pubblica democratica – la sinistra ma anche ampi settori cattolici e perfino i liberali più radicali –, e non solo i lavoratori delle fabbriche e i sindacati. Come l’acqua e il nucleare – su cui sono già stati vinti i referendum – il problema della democrazia nell’economia è infatti trasversale e riguarda tutti i cittadini. Perché allora la sinistra italiana sembra avere paura di discutere apertamente e a fondo questa questione strategica di democrazia?
Ovviamente è molto difficile introdurre forme di Mitbestimmung nel nostro paese: le resistenze confindustriali sono molto forti. Questo però non è un motivo sufficiente per scartare a priori una discussione approfondita, teorica e politica, sulla democrazia industriale.

Il modello partecipativo tedesco spiegato da Seyboth
di Fabio Ghelli da Lettera43
Con la riforma del lavoro del ministro Elsa Fornero, in Italia si fa un gran parlare di modifiche all’articolo 18 che vadano nella direzione del «sistema tedesco». Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha annunciato battaglia in parlamento, chiedendo che la flessibilità in uscita sia bilanciata da un maggiore potere di concertazione dei sindacati nelle aziende, come, appunto, si ha in Germania.
Viceversa, Angelino Alfano ha frenato sul modello tedesco, poiché «la giurisprudenza italiana non è quella di Berlino» e «i casi di reintegro inaccettabili» disposti dalla magistratura, ha argomentato il segretario del Pdl, limiterebbero la maggiore libertà di licenziamento.
MENO LICENZIAMENTI, PIÙ REINTEGRI. In realtà, ha spiegato a Lettera43.it Marie Seyboth, dirigente Lega dei sindacati tedeschi a capo del dipartimento della ‘cogestione politica’- il meccanismo di concertazione con il quale i lavoratori partecipano ai processi decisionali delle aziende –, «in Germania spesso le nostre cause per il reintegro sono coronate dal successo».
Quanto ai licenziamenti facili, nel Paese il dibattito si chiuse anni fa, quando uno studio dimostrò che, «mandando a casa i lavoratori, non si risolveva la piaga della disoccupazione».
DINAMICA DEL CONSENSO E NIENTE SCIOPERI POLITICI. Certo, il modello sindacale tedesco, basato come i sistemi scandinavi sulla dinamica del consenso e non del conflitto, è profondamente diverso da quello dell’Europa del Sud.
A Berlino si incrociano meno le braccia che a Roma, perché «gli scioperi non possono avere natura politica», ha precisato la responsabile. E tuttavia, in Germania «i sindacati hanno più strumenti per partecipare alle decisioni aziendali».
I CONSIGLI DI FABBRICA E DI SORVEGLIANZA. Nelle ditte con più di cinque dipendenti, sono obbligatori i consigli di fabbrica. Non bastasse, grazie al meccanismo della ‘cogestione’, i sindacalisti occupano la metà delle sedie degli Aufsichtsrat, i consigli di sorveglianza tedeschi, che a loro volta possono influire sulle decisioni dei consigli di amministrazione (Vorstand)aziendali. Seyboth, per esempio, ha difeso i lavoratori come membro dell’Aufsichtsrat delle acciaierie ThyssenKrupp.
DOMANDA. Si parla tanto di ‘modello tedesco’. Come funziona il principio
dellaMitbestimmung, la cosiddetta ‘cogestione’, all’interno delle aziende tedesche?
RISPOSTA. In Germania lavoratori partecipano alle decisioni delle società attraverso due organi, il Betriebsrat (consiglio di fabbrica, ndr) e l’Aufsichtsrat, l’equivalente del vostro consiglio di sorveglianza.
D. Nello specifico, come si differenziano i due organi?
R. Il primo viene eletto dai lavoratori nei singoli luoghi di lavoro ed è formato interamente di dipendenti. Il secondo è un organo aziendale che fa capo alla sede centrale.
D. Quanto è forte la presenza dei sindacati nell’Aufsichtsrat?
R. Il consiglio di sorveglianza è composto per metà da rappresentanti della proprietà e per metà da rappresentanti dei lavoratori.
D.È uno strumento diffuso ed efficace?
R. Lo si trova nelle società con più di 500 dipendenti, ossia nelle medie e grandi imprese tedesche. Ed è considerato il cane da guardia, il padrone che vigila sull’azienda.
D. E il consiglio di fabbrica invece?
R. La sua costituzione dipende in larga misura dal grado di sindacalizzazione dell’azienda. Inoltre, il suo funzionamento varia tra piccole e grandi aziende. Il regolamento di base, tuttavia, è sempre lo stesso.
D. Come si svolge il gioco delle parti?
R. La condizione indispensabile per le trattative è che il datore di lavoro creda nel principio della consensualità come fattore di crescita per la sua azienda.
D. Per un italiano, suona strano. A grandi linee, quali sono le differenze tra il modello sindacale tedesco e quello italiano?
R. Possiamo parlare di due culture sindacali diverse. In quella Nord-europea, della Germania e dei Paesi scandinavi, prevale il principio della consensualità. Nel Sud-Europa, ossia in Italia, Spagna, e Grecia, è invece più diffuso un modello basato sul conflitto.
D. Gli italiani incrociano le braccia di più spesso dei tedeschi?
R. Sì, in Italia esiste un diritto più ampio allo sciopero, ma i sindacati hanno meno strumenti per partecipare alle decisioni dell’azienda. In Germania le proteste devono svolgersi pacificamente e non possono avere natura politica. Da noi sono impensabili scioperi generali come a Roma.
D. I conflitti però esistono, anche in Germania. Il colosso del software Sap, per esempio, si è opposto alla presenza dei sindacati. Come, di recente, la P-Well in Bassa Sassonia. Che succede in questi casi?
R. Per legge, ogni azienda con più di cinque dipendenti deve avere un consiglio di fabbrica. Quando nessun lavoratore si candida, non li si può costringere ad assumere un ruolo di rappresentanza. Ma se esiste anche un solo candidato, la dirigenza non può opporsi.
D. Dunque, i sindacati hanno il pieno diritto di entrare nell’azienda per costituire un consiglio di fabbrica. Ma va davvero sempre così?
R. Non sempre, in effetti è problematico. Come accennavo, il diritto di rappresentanza è condizionato dalla premessa che il sistema tedesco è basato sul consenso tra le due parti. Tale modello si fonda sul dialogo e sul proposito di raggiungere una piena convergenza.
D. Cosa comporta, nella prassi, il modello del dialogo?
R. Che se una delle due parti in causa, in questo caso il datore di lavoro, non accetta il dialogo perché non è convinto che sia utile all’azienda, la strada verso un pieno accordo si fa erta.
D. In Italia si discute della necessità di sdoganare i licenziamenti, come condizione essenziale per creare nuovi posti di lavoro. Come è percepito questo dibattito in Germania?
R. Tempo fa, anche qui si è discusso sulla necessità di ridurre i dispositivi di tutela del posto di lavoro, dando per scontato che la difficoltà di licenziare fosse una delle cause dell’elevata disoccupazione.
D. Come andò a finire?
R. Uno studio della fondazione Hans Boeckler dimostrò che la deregulation non serviva a rendere dinamico il mercato del lavoro. Negli ultimi anni, il dibattito non si è più riproposto.
D. Nelle aziende tedesche che hanno consigli di fabbrica, ogni licenziamento passa al vaglio di questo organo. Eppure si legge sempre di allontanamenti per piccoli furti o negligenze varie.
R. Indipendentemente dalla sua entità, nella normativa sul lavoro dipendente il furto è una ragione sufficiente per giustificare un licenziamento.
D. Il sindacato tedesco non fa sconti, neppure in caso di distrazioni o leggerezze?
R. Ci stiamo adoperando per prevedere alcune eccezioni, soprattutto quando i furti sono di piccola entità. Questi casi, però, devono essere analizzati individualmente.
D. Legalmente, come si sviluppa il braccio di ferro tra l’azienda e il sindacato che contesta un licenziamento?
R. Quando intende licenziare un dipendente, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare il consiglio di fabbrica. Il quale, a sua volta, può pronunciarsi contro questa scelta. La decisione finale spetta tuttavia al datore di lavoro. A questo punto, il consiglio può avviare un’azione legale per ottenere il reintegro del dipendente.
D. In Italia i sindacati si appellano invece all’articolo 18, che impone la riassunzione, in caso di licenziamento per ingiusta causa. Per limitare i reintegri c’è chi parla di modifiche sul «modello tedesco».
R. In realtà, con la normativa vigente, in Germania le vertenze per il reintegro dei lavoratori, dopo che il loro licenziamento è stato impugnato dai sindacati, sono spesso coronate dal successo.
D. Ci sono «potentati oscuri» tra industriali e sindacati?
R. In Germania, la maggioranza dei consigli di fabbrica svolge un lavoro egregio. Certo, ogni sistema ha le sue mele marce, come lo furono, nel 2005, i rappresentanti di Volkswagen, accusati di aver accettato favori. Indipendentemente dal grado di influenza reciproca tra sindacato e il gruppo dirigente, ciò non autorizza tuttavia a definire i consigli «potentati oscuri».

Italia e Germania, esperienze sindacali a confronto
news letter di nuovi lavori di Giuseppe Bianchi
Il recente seminario di studi, promosso dalla FAI Cisl (Federazione agricola, alimentare, ambientale) e dalla Fondazione FISBA-FAT, ha avuto come oggetto un confronto tra modelli ed esperienze sindacali in Italia e Germania. L’approfondimento del tema è stato favorito dalla presentazione di un volume di G. Graziani (seconda edizione) che ricostruisce i tratti costitutivi della IG Metall il grande sindacato tedesco dei metalmeccanici, ragionevolmente assunto quale riferimento per il previsto confronto.
Ne richiamiamo, sulla base della documentazione fornita, i lineamenti principali.
· Si tratta di un sindacato di natura associativa che ha come scopo principale la tutela del socio alla cui centralità si ordina l’intera struttura organizzativa.
· Il finanziamento è basato sul contributo degli iscritti raccolto nelle imprese dai fiduciari e viene utilizzato tra l’altro per compensare i costi degli scioperi e per rispondere ai bisogni degli associati (welfare associativo).
· La rappresentanza degli iscritti attribuisce al Sindacato la competenza esclusiva in materia di contrattazione collettiva il cui iter decisionale si svolge all’interno delle strutture di rappresentanza cui compete la validazione dei contratti stipulati, anche attraverso referendum riservati agli iscritti, laddove lo statuto lo prevede.
· La gestione delle clausole di deroga dalle tutele previste nei contratti di categoria avviene nei casi previsti e regolati dagli stessi contratti nazionali.
· La Mitbestimmung (la presenza di lavoratori nei consigli di sorveglianza), laddove prevista, è regolata da meccanismi elettivi cui partecipano tutti i lavoratori (iscritti e non iscritti) e resta comunque subordinata, anche giuridicamente, alle rappresentanze sindacali di azienda in quanto la contrattazione può regolare tale forma di partecipazione ma non è previsto l’inverso.
Questi brevi tratti riepilogativi assegnano al modello tedesco una forte coerenza interna, che ha resistito alla crisi dei primi anni 2000 (Governo Schröder) quando per recuperare competitività all’industria tedesca, la politica delle “concessioni” offerta dal sindacato in materia di salari e di organizzazione del lavoro (flessibilità degli orari) si è proposta, quale obiettivo primario, la tutela dell’occupazione. Il modello, sottoposto a forti tensioni, non ha però subito compromissioni né aprendosi a forme di assemblearismo all’interno delle aziende, né evocando interferenze extra associative, affidate a forme di concertazione sociale.
Una strategia che non ha risparmiato costi sociali agli iscritti al sindacato per il risanamento competitivo delle imprese, né erosioni nella sua rappresentanza associativa.

Anche in Germania la redistribuzione del reddito ha ridotto la quota lavoro nel valore aggiunto e si è accentuata la concentrazione della ricchezza (dati recenti della Bundesbank) ma come W. Goethe annotava due secoli fa “i tedeschi fra l’ingiustizia e il disordine preferiscono l’ingiustizia”. Affermazione che si è ulteriormente radicata nella cultura tedesca a fronte dei disastri provocati dal disordine istituzionale ed economico della repubblica di Weimar. Nel nuovo contesto di prosperità relativa rispetto agli altri partner europei il sindacato tedesco tende ora a risalire la china della sua forza associativa attraverso un maggiore decentramento contrattuale per una ricostruzione dal basso del suo potere organizzativo. Rimangono, in ogni caso, non poche rigidità nel sistema tedesco che rallentano la dinamica dei salari nel loro rapporto con la produttività delle imprese, ma come già alcuni secoli fa il nostro Macchiavelli scriveva, “i tedeschi sono ricchi in gran parte perché vivono come poveri”.
Il problema che ora si pone è come la storia di successo del modello tedesco possa inserirsi nel processo costitutivo dell’Europa che propone una necessaria integrazione dei sistemi economici e sociali rispetto alla quale una più aggressiva politica salariale da parte del sindacato tedesco potrebbe sostenere la domanda interna e per tale via allentare gli attuali divari nei saldi delle bilance commerciali tra paesi forti e paesi deboli. Come annota Graziani, la classe politica tedesca e i sindacati devono evitare l’errore di poter costruire l’economia sociale di mercato “in un solo paese” perché, come ricorda un loro storico, M. Stüermer “l’egemonia del paese deve esprimersi in una entità sopranazionale per evitare il rischio che essa degeneri negli avventurismi tragici del passato”.
2) Dicevamo che il seminario proponeva un confronto con le esperienze sindacali del nostro Paese che a partire dalla fine degli anni ’60 ha intrapreso un percorso che presenta una ibrida combinazione di elementi propri del sistema tedesco e del sistema francese. Del sistema tedesco conserva la vocazione contrattuale (influenza CISL) e del sistema francese alcuni tratti neo-corporativi che si traducono nell’esercizio di una “influenza” sindacale sulla politica, in nome di una rappresentatività di tutti i lavoratori che fa premio sulla rappresentanza degli iscritti (influenza CGIL).
E’ nota la situazione di stallo sindacale, in un contesto istituzionale confuso ed in presenza di una grave crisi economica e sociale. L’attività contrattuale è declinante, sia a livello di categoria che di azienda e la sindacalizzazione è sottoposta al paradosso di Olson: perché iscriversi al Sindacato, quando al contrario di quanto avviene in Germania, il non iscritto gode degli stessi diritti di partecipazione alla vita sindacale (l’elezione della RSU) e dei risultati della contrattazione senza sopportarne i costi?
Anche la capacità di influenza sindacale sulla politica presenta un problema di efficacia in un paese come il nostro dove, a differenza del caso francese, sussiste una precarietà degli assetti istituzionali ed una non visibilità dell’intervento pubblico entro cui le parti sociali sono chiamate ad assumere impegni vincolanti. Un esempio può essere offerto dai patti sociali a sostegno della competitività stipulati a cavallo del 2013 in Francia e in Italia. In Francia il contributo delle parti sociali è avvenuto in presenza di un “piano industriale” del Governo maturato sulla base di un lungo lavoro preparatorio (progetto Attali “liberer la croissance”, 2007). In Italia l’analogo patto sociale, non inserito in un piano governativo, si è limitato a definire linee programmatiche in materia di competitività e di assetto contrattuale che rinviamo ad ulteriori intese.
In conclusione, il seminario ha indicato quanto sia ancora lontano l’obiettivo di una armonizzazione europea dei sistemi di relazioni industriali e per quanto riguarda l’Italia, un “disordine” negli assetti istituzionali e nelle regole contrattuali presidiato da una intransigenza identitaria dei diversi attori. Il rischio è di trasformarci da cofondatori a co-affondatori del progetto europeo se non troviamo soluzioni per uscire dal vicolo cieco in cui ci troviamo.
Né il seminario ha fornito qualche via di uscita dall’attuale situazione di stallo del sindacalismo italiano, rattrappito nel suo pluralismo conflittuale. Una conferma dell’avvenuta rottura tra cultura ed azione sindacale, dell’esaurimento dei cosiddetti “intellettuali di area” che nel passato hanno svolto un ruolo importante nell’alimentare un confronto dialettico all’interno e fra le diverse organizzazioni, il lievito di ogni struttura democratica. Per la CISL, che ha promosso il seminario, basterebbe ricordare, tra gli altri, il ruolo del Prof. Romani di cui si conserva la memoria senza rinnovarne lo spirito creativo, a correzione dell’isolazionismo dell’attuale classe dirigente.

 

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