1/Che pasticcio, signor commissario!

Prima puntata: il cappello da somaro

Se l’ordinanza del Tribunale di Roma che ha respinto il nostro reclamo ha provocato nientepopodimenoché la “somma soddisfazione” del commissario, immaginiamo che invece una letterina ricevuta a febbraio dalla stessa persona ma come presidente della Fondazione un tempo chiamata Fisbafat, deve avergli provocato una “cocente delusione”; o magari, visto che il nostro non è tipo che ami essere contraddetto, un “solenne giramento di scatole”.

Ma finché a fargli girare le scatole è un suo dipendente, il nostro fa presto a levarselo dai piedi. Quando invece a contraddirlo è una pubblica autorità, allora tocca abbozzare anche a lui, che pure non ama essere contraddetto, ha una memoria d’elefante per chi osa farlo, e comunque è abituato a vincere facile.

Prima di dire quel che è successo, e che sta succedendo, bisogna riepilogare i fatti; almeno per quei nostri lettori (e sono sempre di più) che non ci seguono dall’inizio e si sono persi le prime puntate della telenovela. Gli altri possono saltare l’antefatto, leggere le conclusioni di questa prima puntata ed aspettare la seconda.

La fondazione Fisbafat era stata creata dalla Fai con lo scopo, espresso anche dal nome, di tenere viva, sul piano delle iniziative culturali e formative, l’identità delle due organizzazioni sindacali che si erano unite nella nuova federazione.

E questo la fondazione aveva fatto fino al giorno del commissariamento della Fai, il 31 ottobre 2014.

Ma, diranno i nostri accorti lettori, cosa c’entra la fondazione? La Cisl non può mica commissariare un ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, che è sottomesso al controllo della pubblica autorità, non dell’esecutivo confederale assistito dalla struttura tecnica, più o meno competente, di Via Po 21!

Il fatto è che il commissario mandato da Via Po 21 ha voluto a tutti i costi fare anche il presidente della Fondazione. Forse solo per poter così licenziare Giampiero Bianchi, che era appunto dipendente della fondazione e non della federazione; forse per poter accedere, per questa via, alle risorse che la fondazione, anche attraverso il cinque per mille, aveva o poteva avere (di quelle della Federazione, teoricamente, non dovrebbe poter disporre); forse per fare il pieno delle cariche degli enti legati alla Fai assieme alla presidenza delle società Rinnovamento e Agrilavoro, nei cui organi si era potuto insediare usando (e forse un pochino abusando) dei poteri commissariali.

Ma per scalare la fondazione, il nostro eroe ha dovuto fare un giro un pochino più largo; ed ha dovuto servirsi del suo potere di influenza, potremmo dire della ‘moral suasion‘, sui segretari regionali della Fai, fra i quali erano stati scelti i consiglieri d’amministrazione della Fondazione Fisbafat.

Sia come sia, all’improvviso i segretari regionali-consiglieri d’amministrazione si dimettono in blocco, in modo da far decadere anche il presidente, Albino Gorini; ma solo per essere rinominati immediatamente dopo dalla Fai, cioè dal commissario. Il quale viene quindi eletto presidente della fondazione dagli stessi rinominati. Il “do ut des” è evidente.

Si arriva così al 9 gennaio 2015; che potrebbe essere una data storica se la storia che stiamo raccontando non fosse una banale vicenda di grossolana incapacità che, combinata ad una certa arroganza del potere, ha finito per produrre risultati più ridicoli che tragici.

In quel giorno, il commissario, nella veste di presidente della Fondazione che lui ha smesso di chiamare Fisbafat e chiama già Fondazione Fai (come se il cambio di nome di un ente con personalità giuridica fosse una bazzecola) convoca il consiglio d’amministrazione, licenzia il collegio dei revisori dei conti e chiude il comitato scientifico. Anzi, non si limita a congedare le persone (con il garbo ed il savoir faire che tutti gli riconoscono) addirittura fa togliere dallo statuto sia il comitato scientifico che lo stesso collegio dei revisori dei conti. L’unico organo funzionante della Fondazione deve essere il consiglio d’amministrazione, anzi, il suo presidente. Cioè lui stesso.

Ma, diranno i nostri lettori, è possibile che i segretari regionali, riuniti lo stesso 9 gennaio ed informati di queste decisioni, non abbiano detto niente? Come no! Anzi, hanno fatto a gara a chi dava più ragione al commissario, ora anche presidente. Fino a mettersi tutti in fila ed intonare in coro e all’unanimità il loro nuovo inno: battiam battiam le mani, arriva il commissario!

Alla Prefettura di Roma, però, non ci sono battitor di mani. Né gente che si lasci impressionare dal fatto che quelli di Via Po 21 hanno detto che “si fa così”. Perché la cosa buffa è che tutta questa partita è stata gestita, con una certa saccenteria, da “esperti” di fiducia della segreteria della Cisl, che si aggiravano per via Tevere con l’aria di chi veniva finalmente ad insegnare il “come si fa” a questi agricoli ignoranti. Ed invece sono finiti dietro alla lavagna, col cappello da somaro in testa.

Quello che forse avrebbe dovuto fare il Tribunale di Roma (che invece, ci permettiamo una sommessa critica, ha seguito la legge un po’ più comoda del “meglio non immischiarsi”), lo ha fatto, per quanto di sua competenza, la Prefettura di Roma, Ufficio territoriale per le persone giuridiche, nella persona del dirigente, dottoressa Serafina Mascolo.

(fine della prima puntata)

Condividi il Post

Commenti